Editrice il Quadrifoglio
Livorno nonstop
Mensile di Attualità-Arte e Spettacolo rigorosamente Livornese
Cacciucco e brodetti ovvero delle ricette e della creatività
Il romagnolo Pellegrino Artusi pubblicava nel 1891 “La scienza in cucina o l’arte di mangiar bene”, con ricette accompagnate da aneddoti e varie riflessioni.
di Giorgio Mandalis

Il romagnolo Pellegrino Artusi pubblicava nel 1891 “La scienza in cucina o l’arte di mangiar bene”, con ricette accompagnate da aneddoti e varie riflessioni. Per la sua gradevole leggibilità l’originale trattato divenne presto il classico della gastronomia italiana ed è tuttora consultato e seguito per molte preparazioni. Per la prima volta, salvo scoperte che mi smentiscano, compare una guida sommaria su come cucinare il cacciucco, presentato in due versioni: l’una, sperimentata in una città di cui non si fa il nome, che mise a dura prova il processo digestivo; l’altra giudicata “meno gustosa” ma “più leggera e più digeribile” assaggiata a Viareggio. A ben vedere non ci sono differenze sostanziali tra le due ricette, se non che per la prima vengono impiegati per il soffritto prezzemolo, aglio, cipolla e si fa uso di pepe, mentre per la seconda solo aglio e “zenzero”, che, si chiarisce subito, altro non è che la denominazione locale del peperoncino rosso piccante, e niente ha a che vedere col ginger. Così l’Artusi si vendicò di Livorno, città dove aveva soggiornato per qualche tempo riportandone un brutto ricordo: citò Viareggio, ma non fece il nome dell’altra misteriosa città e per molto tempo i lettori sprovveduti credettero che il cacciucco fosse una specialità viareggina. Il gastronomo azzarda una lista di prodotti del mare che concorrono a creare la pietanza: “sogliole, triglie, pesce cappone, palombo, ghiozzi, canocchie, che in Toscana chiamansi cicale”, un misto che oggi verrebbe contestato per alcune presenze (in particolare le sogliole) e soprattutto per alcune importanti assenze, come il polpo e la seppia. Ma rimane interessante il fatto che del piatto a fine Ottocento non esistesse una sola ricetta, e in effetti, come vedremo, ve ne erano ben più di due. Anzi l’Artusi va oltre e crea una corrispondenza tra cacciucco e brodetto: “Cacciucco! Lasciatemi far due chiacchiere su questa parola la quale forse non è intesa che in Toscana e sulle spiaggie (sic) del Mediterraneo, per la ragione che ne’ paesi che costeggiano l’Adriatico è sostituita dalla parola brodetto”. E continua nella dissertazione linguistica sostenendo che a trent’anni dall’unità d’Italia sarebbe stato opportuno pervenire ad una unità idiomatica, che però è osteggiata dai campanilismi locali al punto che si genera una confusione di termini “che poco manca a formare una seconda Babele”. In buona sostanza il cacciucco sarebbe per l’Artusi la versione tirrenica (un geografo mi bacchetterebbe correggendo in “ligure”, perché sino al canale di Piombino si estende il Mar Ligure) dei brodetti adriatici.


Cerchiamo di capire quanto ci sia di vero in questo confronto che a chi è livornese può non far troppo piacere, perché trasforma in una variante locale quello che crediamo sia una gloria gastronomica cittadina, semmai esportata e aggiustata non solo da Viareggini, ma anche da Piombinesi, Elbani e da chiunque cucini prodotti di mare lungo la costa toscana fino all’Argentario. Qui infatti si preparava - non so se qualche chef-filologo attento alla tradizione locale lo cucini ancora - il caldaro, una antica versione priva di pomodoro risalente ai tempi del dominio spagnolo, perché in castigliano il caldero è il paiolo o l’ampio tegame di rame dove si cucinano molti piatti misti, tra cui la caldereta che qualche dizionario sbrigativo traduce proprio con “cacciucco”.
Prima di inoltrarci, anche se di fretta, nel variegatissimo mondo dei brodetti conviene fare una premessa per non perderci nei pelaghi dei consimili piatti di mare. Infatti non esiste solo la caldereta spagnola con cui stabilire confronti, ci sarebbero anche - e mi limito a pochi dei numerosi esempi possibili - le zarzuelas de pescado catalane, le bouillabaisses marsigliesi e provenzali, la kakavià cucinata nelle acque cretesi e, spostandoci fuori del Mediterraneo, la cotriade bretone e la matelotte normanna. Chi ha assaggiato uno di questi piatti di mare potrà obiettare che nella scelta del pescato, nella preparazione, nella maggiore o minore brodosità e soprattutto nel gusto finale poca somiglianza ci sia col labronico cacciucco, ma ciò è vero solo in parte. Tutte queste preparazioni hanno in comune in fatto che derivano da un preciso costume dei pescatori di un tempo, abituati a passare al largo alcuni giorni prima di tornare a riva: quello di essere cucinati sull’imbarcazione scegliendo prodotti di scarso pregio commerciale o per la natura molto liscosa del pesce, o per la sua taglia modesta o per alcune imperfezioni che possano riscontrarsi. Questi scarti di scarso o nessun valore diventano cibo di bordo, cucinato come si può per renderlo gustoso: i Greci, per fare un esempio, preparano la kakavià con semplice acqua di mare, arricchendola però con patate già pelate per assorbirne l’eccessiva sapidità. In ogni caso non possono esserci ricette rigorose, perché gli ingredienti variano molto a seconda di quanto e di cosa del pescato si decida di sacrificare per nutrirsi, sottraendolo al mercato. Semmai è quando la preparazione si trasferisce sulla terraferma che può in qualche modo codificarsi, sempre con varianti non solo locali ma persino familiari, tanto da dover parlare sempre al plurale di queste pietanze: cacciucchi e brodetti. La cucina popolare nasce con quel che c’è di economico - si pensi al mondo infinito delle zuppe e minestre di verdure -, per tentativi ed errori, e cresce e si sviluppa attraverso tradizioni tramandate per molto tempo oralmente da madre a figlia, con possibili aggiustamenti dovuti a confronti tra parenti e vicini di casa e a contaminazioni con piatti simili importati da emigranti.

Nel tempo poi si assesta localmente in una codificazione che assomiglia ad una ricetta, ma che comunque deriva sempre da una pluralità di proposte e di preparazioni. “Io ci metto questo” “Io ci metto quest’altro” “ la mi’ mamma lo faceva così e glielo imparò la su’ mamma” sono mantra ricorrenti quando si prova a chiedere a qualcuno come si prepara un cacciucco tradizionale. Al contrario, nelle cucine di prìncipi e di nobili le creazioni gastronomiche erano legate al nome di uno chef che si assumeva la paternità di una ricetta, che quella è e quella rimane, fatte salve le “rivisitazioni”, che però sono consapevoli aggiornamenti (non sempre felici) di prescrizioni codificate.
Se questo è accaduto per i cacciucchi delle varie località costiere e isolane della Toscana, sorte analoga è stata riservata ai brodetti che si estendono per il ben più lungo litorale che dal Friuli perviene almeno sino all’Abruzzo compreso, senza volerci inoltrare lungo l’altra sponda dell’Adriatico, perché la lista aumenterebbe. Innanzitutto eliminiamo un facile errore: anche se il nome ha evidente attinenza col brodo, di cui appare un vezzeggiativo, per la maggior parte dei casi si tratta di pietanze umide, sugose, ma non brodose, esattamente come deve essere il cacciucco. La preparazione parte da un soffritto che può variare negli ingredienti, prevede l’aggiunta di un passato di pomodoro e più spesso di conserva diluita in un bicchiere d’acqua, di un po’ di vino rosso o di aceto da fare sfumare, di crostini di pane raffermo o abbrustolito come letto della pietanza e tempi diversi di cottura del pescato, lasciando per ultime le varietà che necessitano di pochissimi minuti per essere pronte. Fin qui sembra di leggere la ricetta codificata in qualsiasi libro di cucina del nostro piatto-bandiera. Non mancano nei ricettari di brodetti neanche le raccomandazioni di servirsi di pentole di coccio più che di quelle di metallo e di scuotere leggermente la pentola per evitare che il pesce si attacchi, senza mai
girarlo perché non si spezzi. Possiamo quindi dire che in buona sostanza l’Artusi, per restare in clima marinaro, non aveva poi preso chissà che granchio nel rilevare l’analogia tra cacciucco e brodetto. Ciò però non significa che assaggiare il brodetto di Porto Recanati equivalga a degustare quello di Vasto o di Chioggia o il cacciucco alla livornese: la differenza del pescato e accorgimenti peculiari producono alla fine risultati e sapori molto diversi e differenti caratterizzazioni della pietanza. A Chioggia si impiegano i go (ghiozzi), la bosega (una varietà di muggine), le schie (gamberetti grigi tipici della laguna veneta e del delta del Po) oltre alla coda di rospo e alle scarpène (scorfani neri); a Fano, dove si ha la pretesa di fare il brodetto originale, incontriamo vari ingredienti comuni al cacciucco: palombo, scorfano, tracina, gattuccio, cicale, seppie, ma anche cozze, vongole, coda di rospo, razze, San Pietro, gamberi, mazzancolle e triglie; ad Ancona non mancano, oltre ad alcuni dei suddetti, il merluzzo, la sogliola, i calamari, gli sgombri, i rombi, le anguille, i cefali e le spigole; nel brodetto di Vasto, ad un analogo universo marino, si aggiunge nella preparazione il peperone verde e così via tra infinite variazioni al tema.





Ma tornando al nostro mare di Toscana, vediamo quali novità, in una ricetta di per sé molto elastica, abbia riservato la preparazione di un cacciucco negli ultimi decenni. Aldo Santini, il compianto giornalista che tra le mille cose di cui si occupò non è mancata l’attenzione verso la cucina livornese, per molti anni difese la versione del cacciucco così come era pervenuta dalla tradizione casalinga assestatasi tra Otto e Novecento, tuonando contro le reinterpretazioni del piatto che iniziavano ad essere proposte a partire almeno dagli anni Novanta in alcuni raffinatissimi ristoranti. Ma poco prima di lasciarci cambiò opinione (cosa che spesso succede alle persone intelligenti) e pubblicò un volumetto in cui lodava le versioni proposte da rinomati chef come il Pierangelini del Gambero Rosso di San Vincenzo o lo Zazzeri de La Pineta di Marina di Bibbona. La pubblicazione (2008) suscitò fiere polemiche, tanto da essere definita “un calcio nei coglioni alla ristorazione livornese”, e non senza buoni argomenti: un piatto popolare, nato ricorrendo a pesci “poveri” era stato trasformato in un’eccellenza con il ricorso a carni di pesci pregiati e crostacei di lusso. Niente da dire sulla qualità della proposta gastronomica, ma perché ostinarsi a chiamarla “cacciucco”? Può una reinterpretazione snaturare un piatto al punto tale da non riconoscerlo né alla vista né all’olfatto né al gusto? fino a che punto la libertà creatrice di uno chef può essere incurante dell’aspettativa dell’avventore che ordina un piatto associando ad un nome del menu un’idea più o meno precisa di ciò che sta per mangiare? Ciascuno risponda a queste domande con la sensibilità e l’esperienza di cui dispone, ma per par condicio ne devo sollevare ancora un paio: chi desidera degustare un cacciucco della “tradizione” perché dovrebbe recarsi in un ristorante stellato, in cui lo chef ha il dovere di impegnarsi a proporre sapori unici ed inediti che, pur ispirandosi a ricette note, mantenendone così il nome, le modificano in modo creativo ed esclusivo? essendo la Cucina un’arte, non è legittimo che come tutte le arti sia figlia di una tradizione che segue l’evolversi della società e ne è in qualche misura uno specchio o dobbiamo ostinarci a seguire solo ricette “filologiche” per non dire imbalsamate?
Questi adattamenti del cacciucco alla società, persino alle sue varietà di classe, non sono una novità dei nostri tempi. Appaiono documentati per gli anni iniziali del secolo scorso da Gastone Razzaguta (1890-1950), in un divertente capitolo di Livorno Nostra dedicato alla pietanza. A parte alcune elaborazioni offerte alla nobile clientela dei Regi Bagni Pancaldi, dove si vocifera che le cicale fossero sostituite con scampi e aragoste, e il pesce spinoso pescato lungo costa con carni pregiate di pesce di basso fondale, Razzaguta scrive che a bordo dei pescherecci il pesce morto e cotto tentava di vendicare la sua fine costringendo i pozzolani a tossire e a sputare ad ogni colpo di denti e a tracannare fiumi di vino (rosso) ad ogni boccone; mentre nelle casine - le note trattorie del Molo Mediceo - il piatto veniva addomesticato per venire incontro alle esigenze di un pubblico desideroso di affrontare un’esperienza gastronomica in un suggestivo contesto, senza però compromettere troppo il galateo e la digestione: “si beve anche lì e si rutta piano”; infine nei ristoranti del centro dove del cacciucco si serviva una versione edulcorata per turisti di passaggio “si beve poco e non si rutta più”.

