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Il Cacciucco Livornese e i corsari dell’Impero Ottomano 

Nel numero di Settembre abbiamo affrontato un aspetto poco divulgato intorno al Cacciucco, partendo da alcune osservazioni scritte da Pellegrino Artusi che accompagnano le due ricette più antiche della pietanza finora note (1891).

di Giorgio Mandalis

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Nel numero di Settembre abbiamo affrontato un aspetto poco divulgato intorno al Cacciucco, partendo da alcune osservazioni scritte da Pellegrino Artusi che accompagnano le due ricette più antiche della pietanza finora note (1891).  Si tratta di un confronto coi Brodetti adriatici, in verità tra loro molto più ricchi di varianti anche significative di quanto non lo siano i cacciucchi liguro-tirrenici, ma nel contempo non privo di sorprendenti analogie, tanto da potere fare riflettere sulla congettura avanzata dal grande gastronomo romagnolo che cacciucco e brodetto siano due differenti denominazioni di un medesimo concetto gastronomico, di cui è responsabile la Babele degli idiomi dell’Italia preunitaria.

Abbiamo potuto anche chiarire che almeno tra Otto e Novecento, su testimonianza di Gastone Razzaguta, non esisteva a Livorno una sola ricetta che ne definisse gli ingredienti e la preparazione: attraverso una gradazione discendente costituita scherzosamente da rutti e bevute di generoso vino rosso, lo scrittore ed artista distingueva i cacciucchi cucinati a bordo da quelli presentati nelle trattorie del Molo Mediceo e a loro volta questi ultimi dalle preparazioni dei ristoranti di città, sempre più edulcorati e lontani dall’impiego di pesci liscosi e di scarso pregio commerciale. Viceversa la tradizione locale ricorda anche l’esistenza di cacciucchi di lusso cucinati durante le serate di gala sui Regi Bagni Pancaldi, con impiego di scampi e aragoste piuttosto che di cicale, di palombo piuttosto che di murene o gronghi, destinati ad una clientela aristocratica e dell’alta borghesia. Quindi niente di nuovo sotto il sole, tanto da poter persino ammettere sotto l’elastica denominazione di “cacciucco” anche alcune ricette personalizzate da grandi chef del recente passato attivi sul nostro territorio, come Fulvio Pierangelini (San Vincenzo) e Luciano Zazzeri (Marina di Bibbona), ricette molto lodate nel suo ultimo scritto sull’argomento (2008) dal giornalista Aldo Santini e molto contestate dai “puristi” della pietanza.

Vediamo ora per quali vie sia possibile restituire a Livorno la paternità e la denominazione del cacciucco, con la consapevolezza delle enormi difficoltà che incontreremo per pervenire a qualche conclusione degna di fede. Infatti, leggende a parte, che possono fiorire proprio in assenza di fonti storiche, è necessario premettere che niente di quanto è stato scritto sulle antiche citazioni della pietanza si fonda su prove riscontrabili. Ancora il Santini nel suo classico manuale sulla Cucina Livornese (1988) ricorda un cacciucco (senza documentarlo) che sarebbe stato offerto al popolo labronico dall’ammiraglio veneziano Francesco Corero nel 1712, durante una sua, questa sì, comprovata presenza con la flotta nel nostro porto; e addirittura scrive di una corrispondenza seicentesca tra gli amministratori della neonata città e la magistratura fiorentina che avrebbe dovuto rimborsare le spese di rappresentanza sostenute, le quali, essendo elevate per la frequenti cene sontuose, furono ridotte ingiungendo la preparazione di economici cacciucchi. Peccato che il versatile giornalista non abbia indicato le fonti da cui aveva ricavato le preziose notizie.

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Per quanto è stato possibile finora accertare, la prima attestazione del cacciucco risale solo al 1864, nelle Giunte ed osservazioni del filologo e lessicografo Giuseppe Rigutini al Vocabolario dell’uso toscano di Pietro Fanfani. Ne viene fornita una sommaria definizione, senza richiami al territorio di origine o di diffusione: “Specie di vivanda marinaresca, composta di moltissimi ingredienti”. Molto interessante è però l’esemplificazione dell’uso metaforico del termine: “Pigliare tutto il cacciucco. Significa pigliare tutti insieme in una volta. Es.: Stamattina è stato preso il caporione e tutto il cacciucco.” Possiamo trarre due deduzioni: la prima che per poter avere assunto un significato metaforico sino a creare un modo di dire, il lemma nel 1864 non poteva essere troppo recente; la seconda che il termine denotava sì una “vivanda marinaresca”, ma connotava un’accozzaglia di elementi poco rassicuranti. Proprio il contrario di quanto è successo al lemma “crema”. Insomma un’accezione negativa che non poteva che derivare dallo scarso apprezzamento per gli ingredienti della pietanza, liscosi e di nessun pregio.

Per recedere ulteriormente nel tempo possiamo ricorrere solo ad indizi: l’aneddoto di dubbia o nessuna storicità tramandato a Portoferraio che presenta un Napoleone (1814) attratto lungo il molo dal profumo di un cacciucco preparato a bordo e la sua richiesta rivolta al pescatore di presentarsi alla Palazzina dei Mulini per insegnarne la ricetta allo chef; l’inventario delle suppellettili settecentesche della livornese Casina delle Ostriche (fig.1), scoperto dagli apprezzati ricercatori Clara Errico e Michele Montanelli, in cui accanto a vassoi e piatti di peltro evidentemente impiegati per degustare il pregiato bivalve, figurano zuppiere e scodelle di terracotta che possiamo facilmente collegare alla testimonianza del Piombanti (1903)  attestante la fama dei cacciucchi che vi venivano preparati. Tutto qui. Un po’ pochino, me ne rendo conto. Ma percorrendo un’altra strada possiamo forse andare più lontani. Mi riferisco al percorso etimologico, anch’esso tuttavia insidioso e non privo di storture.

Secondo una falsa etimologia, spesso ripetuta stancamente da chi copia e incolla senza vagliare troppo le fonti, “cacciucco” deriverebbe dallo Spagnolo cachuco, che dovrebbe significare “dentice” o un pesce ad esso simile. In realtà nessun dizionario riporta questo lemma con questo significato, mentre per “dentice” troviamo il sostantivo dentòn. Una curiosità: il web  registra per cachuco un impiego limitato ai Messicani dello Stato del Chiapas che designano così gli abitanti dell’America centrale, nel qual caso, se fosse - come immagino - un dispregiativo, potrebbe persino derivare dall’Italiano “cacciucco” nell’accezione metaforica che abbiamo incontrato sul Fanfani-Rigutini: un miscuglio di etnie. Del resto nel XIX secolo è storicamente attestata un’emigrazione di Italiani, soprattutto del Nord, nel lontano Messico.

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Infine, ammesso e non concesso che in  qualche sparuta località della penisola Iberica il dentice lo chiamino veramente cachuco, mi chiedo quale rapporto ci sia tra questo pesce e le varie interpretazioni della pietanza, che in nessun caso lo contemplano tra i pur numerosi ingredienti. E comunque, come si diceva nell’articolo di Settembre, per un piatto che assomiglia al nostro cacciucco il Castigliano usa il lemma caldereta.
I linguisti di professione, come attesta qualsiasi vocabolario moderno della lingua Italiana, ritengono invece che si tratti di una parola di origine turca, trascritta con l’alfabeto fonetico in küçük o küçüklü, che significa “piccolo”. E così ci avviciniamo decisamente alla Livorno del XVII secolo, in un’epoca in cui molti schiavi originari dell’impero Ottomano erano addetti ai remi delle galere stefaniane (fig.2) o relegati nella prigione-fortezza chiamata il Bagno (fig.3), situata tra il porto e la Piazza Grande, dove lavoravano nella granducale biscotteria o venivano impiegati per la manovalanza edile della nascente città. Nessun’altra località costiera fra il Magra e il Fiora ebbe a che fare per tanto tempo con una quantità così considerevole di “turchi”: dopo la conquista della base corsara algerina di Bona (1607) affluirono in una Livorno che contava circa 5000 abitanti ben 2000 prigionieri (fig. 4) e nel corso del secolo si calcola che vivessero in città più “turchi” che livornesi. 
Alcuni studi condotti dalla prof. Lucia Frattarelli Fischer e dal compianto prof. Enrico Stumpo hanno messo a fuoco il tipo di integrazione e di interazione possibili che si erano attuate tra gli schiavi e il popolo labronico: i più affidabili avevano aperto delle botteghe lungo il perimetro della prigione-fortezza, dove vendevano piatti appena cucinati simili a quelli di uno street food attuale, altri si aggiravano per il centro come acquaioli o come venditori ambulanti, ma forse la cosa più interessante riguarda le schiave “turche”, molto ricercate come colf e cuoche dalle famiglie abbienti. È in questo contesto che può essere intervenuto il prestito tra Turco e idioma toscano rendendo la parola di difficilissima pronuncia (irripetibile se detta da un turco, come mi è accaduto di udire) col più semplice “cacciucco”.
Questa ricostruzione derivata dall’etimo proposto dai lessicografi mi convince in gran parte, ma non del tutto. Infatti per “turco” nel Seicento si intendevano genericamente i sudditi dell’impero Ottomano, ma i prigionieri degli abbordaggi e delle razzie stefaniane erano soprattutto Marocchini, Algerini, Tunisini e Libici, insomma sudditi della Sublime Porta  che parlavano arabo o berbero, non turco. La lista nominativa degli schiavi del Bagno nel primo Seicento pubblicata nel 2015 dallo storico dell’arte americano Seven Ostrow lo dimostra in modo inequivocabile. Anche nella nostra tradizione locale riscontriamo la stessa cosa: due dei quattro mori di cui grazie al Santelli (sec. XVIII) conosciamo i nomi sono Morgiano di Algeri (nel documento di Ostrow risulta di Tangeri, forse ci fu un errore di trascrizione da parte dell’annalista livornese) e Alì Saletino, cioè della città marocchina di Salé, altra celebre base corsara. 
Ora, per tornare al cacciucco, esiste lungo tutta la fascia mediterranea dell’Africa una pietanza che varia molto per ingredienti a seconda delle aree geografiche e delle ricette tramandate in famiglia. Non prevede il pescato, ma una varietà più o meno ricca di prodotti di terra che vengono mischiati assieme, spesso aggiungendovi anche delle uova. Il suo nome è chakchouka, parola  berbera che prima ancora di definire una pietanza significa “miscuglio”, “mistura”, (fig.5). Formulo quindi un’ipotesi: il nome generico già collegato a preparazioni culinarie di natura eterogenea potrebbe essere stato attribuito anche al nostro “miscuglio” di prodotti del mare, definendo così il piatto labronico altrimenti sperso tra le infinite varianti delle anonime zuppe di pesce. Ma comunque sia, resta il fatto che il “battesimo” della pietanza, sia pure che il nome  derivi dal turco o dal berbero degli abitanti del Maghreb, poté avvenire a Livorno e non altrove.

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