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Cancro: “A Livorno mi hanno salvata”

Con Lucia Teresa Benetti ci siamo conosciute qualche anno fa attraverso Facebook: la passione che ci ha unito è stata la scrittura e attraverso i nostri scambi si è tessuto un rapporto di stima reciproca, ogni tanto mi invitava alle presentazioni del suo libro “Non sempre vince Golia” (v. sotto copertina) che confesso, ho svicolato diverse volte per l’argomento che trattava. Argomento del quale ho sempre avuto una grande paura e anche tanta empatia che non mi ha mai risparmiato dolore per chi nel corso del tempo ne è stato colpito.

di Stefania D'Echabur

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Con Lucia Teresa Benetti ci siamo conosciute qualche anno fa attraverso Facebook: la passione che ci ha unito è stata la scrittura e attraverso i nostri scambi si è tessuto un rapporto di stima reciproca, ogni tanto mi invitava alle presentazioni del suo libro “Non sempre vince Golia” (v. sotto copertina) che confesso, ho svicolato diverse volte per l’argomento che trattava. Argomento del quale ho sempre avuto una grande paura e anche tanta empatia che non mi ha mai risparmiato dolore per chi nel corso del tempo ne è stato colpito.

E così un giorno è stata la “montagna” che si è presentata a “Maometto”, Lucia si è finalmente materializzata ad un evento in cui partecipavo per la giornata contro la violenza sulle donne, tra noi è stato subito “colpo di fulmine”, tanto che dopo qualche settimana eravamo insieme al carcere delle Sughere per presentare il suo libro.

Due donne, lei e io, completamente diverse, lei veneta e signora raffinata, io livornese, schietta e colorata, ma nel tempo abbiamo scoperto di avere in comune un’autenticità innata e Lucia è diciamo anche un po’ “birbante” e credo sia per il suo essere frizzantina che ama molto la nostra città.

Il suo libro è un diario del suo percorso oncologico, direi socialmente utile, perché sviluppa un occhio diverso sul concetto di malattia, un argomento del quale spesso non ne vogliamo parlare perché crea panico e terrore, associamo la parola cancro a morte, spesso è più facile fuggire e volgere l’occhio altrove.

Allora perché la nostra autrice ha destato tanto interesse? Cosa fa nel suo diario?

Prende per mano il lettore e insegna attraverso la sua storia personale altri vocaboli: accettazione che non è rassegnazione, condivisione, “rinnovata normalità”.

La malattia se affrontata con strumenti giusti può non essere più chiamata “male incurabile perché non sempre vince Golia”, e si possono attivare nel “malato” risorse sconosciute a prima del male.

Lucia uscita dagli ospedali poteva dedicarsi serenamente al golf, alle terme o viaggiare il mondo in largo e lungo, invece si è messa sì in viaggio, ma andando in su e giù per l’Italia, riempendo atenei, sale degli ospedali e portando la sua esperienza dove le venisse chiesta.

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- Lucia da dove nasce la forza e la spinta diciamo per questa tua “missione”?

Io non so se la mia la posso definire “forza”. Credo piuttosto che questo inciampo (come io chiamo il mio “incontro” con il cancro) mi abbia fatto sviluppare una consapevolezza che sicuramente già avevo, ma di cui non ero completamente conscia.  Ridendo, spesso, dico che le tante chemio fatte mi hanno lasciato attivo un solo neurone: quello della sfacciataggine. Un neurone così sfacciato che si è alleato con il mio pazzo coraggio, così da non permettermi di fermarmi davanti a niente. E’ un coraggio, il mio, però, attento che mi porta a prendere le difese di chi non ce la fa più a combattere, portare avanti domande e cercare le giuste risposte da chi ha l’obbligo di darmele, parlare per chi non ha più voce o è, anche, solamente bloccato da un pudore ovvio, che ogni malattia ti regala.  Credo sia la somma di molti atteggiamenti e situazioni che in prima persona ho vissuto e vivo. Situazioni che vedono il malato, il paziente, sempre in una posizione di inferiorità psicologica di fronte al mondo sanitario.  Io sono stata fortunata ad incontrare medici e personale attenti, ma non è per tutti così. E allora ecco la spinta che mi ritrovo dentro… una specie di senso della giustizia. Diciamo così.

- Hai conosciuto tantissime persone in questi anni, c’è stato un fatto o una persona che ti hanno colpito particolarmente?

Sicuramente sì. Avere avuto anche il privilegio di andare in giro per l’Italia presentando i miei libri, mi ha portato in ambienti spesso diversi tra di loro e, qualche volta inimmaginabili. Solitamente alla fine di ogni presentazione segue una discussione. Le persone intervengono, fanno domande, buttano fuori idee e curiosità. Se posso vorrei citare due situazioni che mi hanno colpita e segnata. In uno di questi incontri avevo notato la presenza di un signore sulla carrozzina in fondo al salone di un Palazzo che ospitava l’evento. Lo avevo notato, perché era davvero un bell’uomo, tutto vestito di nero e dall’espressione assolutamente seria. Non lo avevo visto fare un minimo accenno a un sorriso anche quando la gente che gremiva tutta la sala rideva di cuore. Questo mi aveva incuriosita, ma poi tutta presa dalle firme delle copie vendute, avevo dimenticato il fatto. Me lo ero trovata improvvisamente davanti. Aveva una copia del mio libro in mano, ma non gli interessava il mio autografo con la solita frase di circostanza, bensì mi chiese se poteva parlarmi. Ovviamente acconsentii. Scoprii così che la sua vita sarebbe finita nel giro di pochi giorni. Non sopportava l’idea di dover affrontare anche il cancro diagnosticato due giorni prima. Già la sua vita si era fermata a causa di un incidente di moto che lo aveva ridotto a vivere così, seduto e sempre in cerca di qualcuno che lo potesse aiutare. Mi chiedeva come facevo io, fresca di chemio a gogò, a continuare a sorridere. Credo mi considerasse sciocca e superficiale. Ricordo che per la prima volta rimasi senza parole. Ci scambiammo, però, i numeri di telefono. Passai un’intera settimana a parlare con lui, a cercare amici che lo aiutassero a desistere da quel suo progetto. Ci riuscimmo non senza fatica. Affrontò poi intervento e terapie con coraggio e dignità. Siamo rimasti sempre in contatto. Aveva riallacciato amicizie che pensava chiuse. Aveva ripreso anche a scrivere le sue poesie, perché era un arista, un poeta. Purtroppo se n’è andato poche settimane fa. È stato un grande dolore. Ma il cancro oltre al dolore fisico ti regala a piene mani anche di queste sofferenze. La seconda persona che ho nella mente non ha un volto. È solo una domanda che mi arrivò come una stillata nel cuore. Ero a Bassano del Grappa, la mia città d’origine. In galleria ci saranno state 250 persone. Ad accompagnarmi c’era il professore che mi sta ancora seguendo. Un giornalista ci poneva domande a raffica che arrivavano dagli spettatori che erano muniti di un telefonino dal quale potevano formulare domande a loro volta, proiettate poi sul grande schermo alle nostre spalle. Tutto procedeva nel migliore dei modi. Poi quella domanda: “Non si sente in colpa di essere ancora viva nei confronti di chi non c’è più?”. Cosa ho risposto non ha importanza. So solo che aveva riaperto una ferita che c’era e c’è nel cuore di ogni paziente oncologico quando viene a sapere che un suo compagno di viaggio non ce l’ha fatta. Che non c’è più.

- Conoscendoti, so del tuo amore per la nostra Livorno e di come ti senti a tuo agio nella città, da non livornese come la vedi nei suoi aspetti? Pregi e difetti.

Livorno: città piena di contraddizioni. Livorno piena di colore, di vita e di voci. Quando sono arrivata qui ero come una bambina che si trovava di fronte ad un nuovo gioco e rimaneva stupita con la bocca aperta ad ammirare. E a capire come fare a giocare. Sono sincera: inizialmente mi spiazzava. Dovevo imparare anche un gergo che, in trent’anni a Firenze, non corrispondeva a quello che le mie orecchie conoscevano. Così quel “de” infilato ovunque o quella “bella topa” mi facevano sorridere come il “mi bimbo” appiccicato alle persone finché sono in vita, indipendentemente dalla loro età. Ma Livorno per me è qualcosa di speciale per altro. Qui mi hanno operata. Qui mi hanno salvata. Qui mi hanno accolta. Qui mi hanno fatto sentire “a casa” quando, invece, la mia casa è lontana. Non posso non parlare dei miei giorni in ospedale. Impaurita e spaesata. Eppure la parola data, la carezza regalata mi hanno permesso di restare a galla.  Livorno per me è luce. è aver incontrato, sarebbe meglio dire, rincorso persone come te, cara Stefania. Nei lunghi mesi in cui ero costretta a letto, l’unica finestra che mi portava il mondo erano i social. E io ti vedevo e mi piacevi. Ecco: Livorno sono le amicizie che mi sono scelta. Donne e uomini splendidi. Schietti. Veri. Che mi hanno accolta senza troppi pregiudizi.

Livorno è entrare in un negozio sconosciuto per una commissione veloce e fermarti un’ora a chiacchierare. è chiedere la ricetta per cucinare al meglio la coda di rospo in pescheria e trovarti ad avere un nuovo amico. Livorno è generosa. Mi piace! è una bella donna scapigliata e scalza. Vestita con gonne colorate e musica negli orecchi. è abbronzata, ha gli occhi grandi e labbra rosse. è ingenua, vera e questo la porta a farsi un po’ troppo strapazzare da figli non sempre attenti. Questo lo devo dire. Basta con “è sempre stato così” o peggio “Siamo anarchici”. Lo possiamo fare, forse, dentro le pareti di casa nostra, ma la città è la casa di tutti. Ha potenzialità immense. Rispettiamola e facciamola

    rispettare. Pretendiamo che sia rispettata e che chi sbaglia paghi. Avete mai provato a girarla di notte, quando tutto è fermo? è stupenda. Ci sono luoghi che, arruffianati dalle luci dei lampioni, diventano magici. Sono così belli da restare incantati. Poi al mattino gli stessi luoghi li vedi trasandati, sporchi, sciupati da incurie che non dovrebbero esserci. Questo non va bene. Iniziamo a multare per davvero. A prendere per le orecchie i nostri figli se li vediamo maleducati. Sarà come in una caduta libera, a catena: se trovo pulito e non vedo nessuno più che sporca mi sentirò in imbarazzo a buttare anche solo un pezzetto di carta per terra.

Ecco, qui sì la politica dovrebbe aiutare. Qui sì dovrebbero esserci controlli serrati. Non pensiamo solo al lungomare che è stupendo. Pensiamo alle piazze, alla sua storia che, anche se giovane, è importante ed intensa. Pensiamo a darle sempre dignità e smettiamola di farla considerare come solo una città di porto.  è una città di storia che ha “anche” il porto. Un porto importante, certo. Ma che ha perso anche lui lustro.

Mi devo fermare. Mi chiedevi come mi sento qui? Beh, mi sento talmente integrata che io sì farei confusione! Non mi piace vedere questa città non valorizzata. Vedere gli sforzi di pochi vanificati dall’indifferenza di tanti. Livorno io la respiro e la osservo come una che si sta innamorando e ha paura di scottarsi. Livorno è il mio sorriso la mattina quando, affacciandomi, mi arriva il saluto dal bar davanti. Un po’ casa anche lui. Tutte cose a me prima inusuali, ma che hanno invaso (e non ho nessuna intenzione di mandarle via) il mio cuore.

 

Era da tempo che volevo farvi conoscere Lucia Teresa Benetti, credo che oggi con quello che tutti noi stiamo vivendo questa intervista sia una modalità e forse un aiuto per cercare dentro ad ognuno di noi gli strumenti per quando ci sentiamo scoraggiati.

Tante le storie di cui veniamo a conoscenza che ha prodotto questa brutta pandemia, teniamo ben salde le regole, ma non perdiamo di vista la nostra più grande ricchezza: l’umanità.

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