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Due (scandalose) donne livornesi di metà ‘700  

Quella che viene chiamata la “grande storia”, come tutti sanno, è stata scritta in prevalenza o da esponenti dei ceti dirigenti o dai vincitori delle guerre, che per di più furono soliti distruggere materialmente le ragioni dei vinti: se potessimo leggere la versione cartaginese delle guerre puniche, come ne uscirebbero Roma e il suo imperialismo mediterraneo? se non fossero state bruciate dai Conventuali le biografie della vita di Francesco di Assisi scritte dagli Spirituali, come apparirebbero oggi l’insegnamento e la personalità del Santo? Purtroppo dobbiamo accontentarci di quello che c’è e congetturare come siano andate realmente le cose aggrappandoci agli indizi sfuggiti agli storiografi ufficiali.

Di Giorgio Mandalis

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Quella che viene chiamata la “grande storia”, come tutti sanno, è stata scritta in prevalenza o da esponenti dei ceti dirigenti o dai vincitori delle guerre, che per di più furono soliti distruggere materialmente le ragioni dei vinti: se potessimo leggere la versione cartaginese delle guerre puniche, come ne uscirebbero Roma e il suo imperialismo mediterraneo? se non fossero state bruciate dai Conventuali le biografie della vita di Francesco di Assisi scritte dagli Spirituali, come apparirebbero oggi l’insegnamento e la personalità del Santo? Purtroppo dobbiamo accontentarci di quello che c’è e congetturare come siano andate realmente le cose aggrappandoci agli indizi sfuggiti agli storiografi ufficiali.

Qualcosa di analogo avviene per la cosiddetta “piccola storia”, quella quotidiana, che quando assume la forma di una narrazione è spesso declinata al maschile, almeno fino ad anni relativamente recenti. Ecco perché avere notizia di donne che per qualche ragione lasciarono il loro nome scritto nelle cronache dell’epoca può costituire un fatto di grande interesse, anche se a raccontarcelo non furono loro, ma contemporanei maschi che assunsero una prospettiva di osservazione tipicamente maschile. Nelle “Curiosità livornesi” e “Nuove Curiosità Livornesi” che Francesco Pera pubblicò rispettivamente nel 1888 e nel 1899 vengono ricordati fatti di cronaca locale desunti da fonti certe, alcuni dei quali riguardano giovani e belle fanciulle. Mi soffermerò su due storie quasi contemporanee risalenti alla metà del 1700, un’epoca in cui per onorare una donna – come si legge su una lapide all’ingresso del Santuario di Montenero – si diceva che fosse dotata “di senno virile”. E uomini apparvero, per ragioni diverse, le protagoniste delle due narrazioni.

Il primo caso riguarda una certa Antonia Bremonti. Il Pera ricava la notizia dall’ordine di esilio trasmesso in data 30 luglio 1751 al governatore di Livorno, marchese Carlo Maria Ginori, da parte della Segreteria dei Presidenti del Consiglio di Reggenza che agivano in nome del granduca Francesco Stefano di Lorena, il quale non viveva a Firenze, bensì a Vienna assieme alla moglie, l’imperatrice Maria Teresa d’Asburgo. Seguono i fatti che motivavano la richiesta.

Di Antonia si legge che  a Livorno “non vi è più scandalosa donna” perché “in primo luogo” (quindi è la colpa più grave forse perché esibita in pubblico e senza vergogna) “si fa lecito di andar vestita per la città in abito da uomo, cingendo spada, e facendosi veder spesso a cavallo in tale abito, galoppando per la città”. Il Pera commenta in nota, probabilmente senza ironia, che la donna mostrava in tal modo “segni di emancipazione femminile anticipata di circa un secolo e mezzo”.

Seguono poi altre ragioni a mio giudizio irrilevanti sotto il profilo penale (si potrebbe oggi profilare al massimo la circonvenzione di incapace, ma tutta da dimostrare), riferendo comportamenti di per sé ben poco compatibili con una richiesta di esilio, ma che dovevano turbare i benpensanti, come il fatto che Antonia fosse in amicizia con più persone “e [per]fino con Ebrei”.

Comunque, essendo la società anche a Livorno perbenista e un po’ bigotta, si viene a sapere che mesi prima aveva spremuto il borsello di un suo giovane spasimante, un turco di nome Alì, e che, essendo l’epoca della Livorno delle Nazioni, Antonia se la faceva da svariati mesi anche con un ricco negoziante greco, tale Emanuele Sifoneo di circa ventiquattro anni. Il

     padre del giovane, Anastasio, notabile della comunità ellenica, aveva fatto il possibile per dissuadere il figlio dal continuare la relazione, ma senza successo. Infatti Antonia si recava  alla sua casa, bussando anche a mezzanotte per riconquistare il suo amante, che puntualmente cedeva, donandole anche denaro e due begli abiti. La Segreteria della Reggenza conclude la sua ingiunzione con l’unico argomento che oggi potrebbe assumere una qualche rilevanza processuale, riguardante in realtà non Antonia ma due giovani tedesche al suo servizio che si prostituivano, mestiere antico che avrebbe esercitato anche la loro padrona prima di trovar marito, ma non si evince che la donna le sfruttasse o che traesse beneficio dalla loro attività.

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Non si sa se o in che misura il marchese Ginori procedette contro l’affascinante e spregiudicata donna, rea di vestirsi da uomo e questo settant’anni prima di Aurore Dupin, la scrittrice francese nota con lo pseudonimo maschile di Georges Sand, passata ingiustamente alla storia per essere stata la prima a preferire  questo tipo di abbigliamento. La storia di Antonia Bremonti finisce qui.

Pietro Bernardo Prato (1743-1814), per chi non lo sapesse, è stato un cronachista  che dedicò la vita a registrare con scrupolo veritiero nei 63 volumi manoscritti del Giornale della città e del Porto tutto quanto accadde a Livorno, giorno dopo giorno, dal 1764 al 1813, compreso il meteo.

Veniamo così a conoscere i nomi delle navi che movimentarono la vita portuale e cosa trasportassero, le leggi granducali e i bandi cittadini, i fatti accaduti, gli episodi di vita quotidiana e le storie di personaggi altrimenti ignoti. Ognuno può immaginare quanto sia prezioso per la storia locale consultarne l’opera ed è da qui che Francesco Pera trova  materia per raccontare la vicenda di un’altra donna livornese, che si chiama-

      mava Carolina Cini, sposata con un napoletano di nome Niccola de Jennaro.

È esattamente il 15 settembre 1775,  un martedì, quando di regola “né si sposa né si parte”, divieti entrambi disattesi dalla intraprendente ragazza. Infatti in quel giorno Carolina, vestita da soldato, assieme al suo amante, un tenente della fregata russa La Boemia, si imbarca con l’evidente complicità del capitano prendendo subito il largo. Sembra che l’ufficiale, di cui non sappiamo il nome, fosse riuscito ad ubriacare per bene il marito per poter agire indisturbato.

Ma dopo essersi ripreso, il de Jennaro si rese conto dell’accaduto e, andato comprensibilmente su tutte le furie, cercò di ricuperare Carolina. Ottenuto l’ordine scritto di restituzione della maglie, salì su un gozzo armato con dodici uomini che riuscì a raggiungere rapidamente la nave. Era bonaccia e La Boemia si era allontanata di poco.

Ma prima di sapere come andò a finire occorre fare un breve flashback e capire le ragioni della fuga amorosa. Don Niccola era di famiglia  benestante, ma dovette scappare da Napoli perché accusato di fratricidio. Giunto a Livorno comprò Carolina al padre anticipandogli la somma non irrisoria di centoventi zecchini, che il Cini avrebbe dovuto restituire se l’affare non fosse andato a buon fine. Così la ragazza, venduta appena ventenne dal padre si trovò sposata a un delinquente, per di più geloso e violento che la sottoponeva a sevizie continue.

La notizia della fuga si sparse rapidamente e la punta del molo mediceo, da cui potevano vedersi bene gozzo e fregata, si affollò di curiosi che desideravano sapere come si sarebbe conclusa la storia.

Don Niccola esibì l’ordine di restituzione della moglie al capitano, che però asserì di non sapere niente di donne a bordo e gli consentì di ispezionare la nave. Il meritoriamente cornuto iniziò a chiamare Carolina promettendo perdono e ad invocarla con paroline affettuose, ma non udì risposta né riuscì a scovarla. Così dovette risalire sul gozzo e, imbufalito per la beffa, dovette anche incassare l’umiliazione della “salva di fischi” con cui fu salutato il suo sbarco sul molo.

La vicenda, come si può immaginare, dovette occupare le chiacchiere nelle taverne e nelle piazze per svariati giorni.

Ne nacque persino un motivetto, che il Pera ricorda di aver ascoltato dalle vecchie livornesi quando era ragazzo e che con metrica discutibile recitava così:

 

Carolina se n’è ita

sulla nave Moscovita

e vestita da granatiere

se l’è presa il tesoriere

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