Editrice il Quadrifoglio
Livorno nonstop
Mensile di Attualità-Arte e Spettacolo rigorosamente Livornese
Il Cacciucco delle 5 C:
la storia di un orgoglio labronica
Una zuppa di pesci spinosi, di scarto e di scarso o nessun pregio gastronomico, inventata per sfamare i pescatori durante le loro permanenze in mare, non avrebbe potuto in nessun modo diventare un simbolo e un motivo di orgoglio cittadino
di Giorgio Mandalis

Una zuppa di pesci spinosi, di scarto e di scarso o nessun pregio gastronomico, inventata per sfamare i pescatori durante le loro permanenze in mare, non avrebbe potuto in nessun modo diventare un simbolo e un motivo di orgoglio cittadino se fosse rimasta com’era nel XVII secolo, quando gli schiavi Turchi e Magrebini le dettero il nome esotico che ancora la contraddistingue. E meglio faremmo a declinare con una pronta scusa l’invito di chiunque ci prospetti di cenare con una cacciuccata “filologica”, di cui si millanta di detenere la ricetta originale. Sogneremmo per tutta la notte di vogare da soli, chini su un unico remo, per dar motore in un giorno di assoluta bonaccia all’ammiraglia della flotta di Santo Stefano, col risultato di sputare sangue solo per farla girare continuamente su sé stessa.
A imborghesire, non voglio ancora dire nobilitare, la pietanza concorsero nel tempo almeno due fattori: la sostituzione di alcuni prodotti del pescato con altri più delicati e mangiabili senza troppo rischio per lingua, palato, apparato digerente e l’inserimento del pomodoro, la solanacea americana su cui gravò per molto tempo in sospetto di essere tossica.
Partiamo da questo secondo aspetto, così determinante nella definizione del cacciucco da non poterlo più immaginare senza la tipica rossa colorazione. Svariati piatti di mare “alla livornese” prevedono l’impiego di un sugo di pomodoro, come accade, è l’esempio più noto, per le triglie un tempo dette “alla mosaica”. Infatti si racconta che l’impiego gastronomico del pomodoro sia stato favorito proprio dalla comunità sefardita affluita in città nel tardo Cinquecento e nel corso del Seicento, grazie alla protezione delle Leggi Livornine (1591, 1593). La provenienza da Spagna e Portogallo, dove affluivano i prodotti del Nuovo Mondo prima che altrove, avrebbe indotto la comunità ebraica ad apprezzare precocemente il valore gastronomico dell’ortaggio, dorato o rubicondo che fosse, comunemente consumato dagli Indios senza pregiudizio per la salute. Quindi gli emigranti iberici avrebbero avuto il merito di farlo conoscere ai Livornesi molto prima che il suo impiego in cucina si diffondesse altrove.


Questo è ciò che si racconta e le cose potrebbero anche essere andate così. Purtroppo però non esistono documenti noti che lo attestino e tutto si basa su una tradizione, per quanto mi risulta, orale. Per contro, indizi significativi potrebbero mettere in dubbio questo resoconto dei fatti. Innanzitutto non si capisce perché i Sefarditi mangiassero pomodori quando i cristiani iberici (ricordiamo il pallido caldaro dello Stato dei Presidi) non ne facevano ancora uso. Inoltre il protospeziale Diacinto Cestoni, che esercitava la professione a Livorno ed era di inclinazione vegetariana, non menziona mai il pomodoro nelle sue numerose lettere al naturalista Vallisnieri, scritte a ca-
vallo tra Sei e Settecento: egli menziona il caffè, ed è pure attento ad indicare come la bevanda, ignota fino a vent’anni prima, avesse così bene attecchito a Livorno da consentire l’apertura di una quarantina di botteghe dove degustarlo, dando così lavoro a numerose famiglie. Ma tace del pomodoro.
In effetti, anche se il primo in assoluto a citare l’esistenza della solanacea e ad attestare che qualcuno ne faceva uso gastronomico è il grande naturalista Andrea Mattioli (1501-1577), per trovare ricette che ne richiedano l’utilizzo - salvo pochi precedenti casi isolati - bisogna aspettare il trattato di cucina di Vincenzo Corrado (1736-1836) Il cuoco galante, pubblicato a Napoli nel 1773, dove ne compaiono più di venti.
Niente ci assicura quando a Livorno si sia iniziato ad adoperarlo sia in generale sia in particolare nella preparazione del cacciucco, ma verosimilmente non prima della fine del XVIII secolo, in seguito agli studi di Lazzaro Spallanzani sulla conservazione dei cibi. Ricordiamo come sul Fanfani Rigutini che ne registra per la prima volta il lemma (1864), il cacciucco sia ancora associato nell’uso metaforico ad un miscuglio di robaccia.
È d’altra parte probabile che proprio il ricorso al pomodoro abbia incoraggiato una ridefinizione della qualità e natura del pescato, in modo tale da rendere la pietanza appetibile e presentabile nei luoghi di ristoro e nella cucina casalinga. Questo deve essere avvenuto sopratutto nel corso dell’Ottocento, quando si assesterà qualcosa che con prudenza possiamo chiamare una sua ricetta, elaborata certamente per tentativi ed errori, confronti tra vicini di casa, consigli di immigrati, come quei pescatori marchigiani avvezzi al loro brodetto che si stabiliranno a Viareggio.
Mi viene da sorridere quando qualcuno esibisce la ricetta “originale” del cacciucco. Diciamo comunque che tra le molte varianti, anche dovute a ciò che il mercato offre stagionalmente, esiste un modo prevalente di preparare la pietanza, che nella tradizione degli ultimi 150 anni ha prodotto una versione “alla livornese”. Vi si usano per il soffritto (o sosfritto come si dice in labronico) l’aglio, non la cipolla e la salvia, non il prezzemolo; il piccante è dato dal peperoncino (zenzero) più che dal pepe; il pomodoro è in genere il concentrato, il “Cirio”, dal nome del pioniere dell’industria conserviera italiana attiva dalla seconda metà del XIX secolo; il pescato dovrebbe comprendere almeno polpi, seppie, scorfani, tracine, gattucci, palombi, anziché murene o gronghi come poteva accadere in origine, ma c’è un noto ristorante cittadino che ancora usa la murena; tra i crostacei non può mancare la cicala, infatti nella tradizione popolare non compare nessun gambero né tanto meno possono essere usati scampi o aragostine, presenti invece nelle versioni di lusso, di cui molti contestano l’eccesso di libertà creativa, perché verrebbe tradita sfacciatamente l’origine plebea del piatto; nessun mollusco bivalve, anche se l’Accademia della Cucina Italiana comprensibilmente tollera l’uso di qualche cozza (dattero in labronico) ad uso unicamente decorativo. Il tutto servito caldo su un letto di pane toscano raffermo, abbrustolito e strusciato con uno spicchio d’aglio.
La brodosità deve essere contenuta e in gran parte assorbita dal pane lasciando in umido il pescato senza farlo mai galleggiare.
E il fumetto realizzato coi pesciolini liscosi? Ammettiamo che sia un valore aggiunto, ma permangono dubbi sul suo impiego nelle ricette più tradizionali, non ancora contaminate da brodetti adriatici o da zuppe di pesce di altre località di mare italiane, in cui i fumetti sono spesso presenti.
Solo dopo una tale metamorfosi il cacciucco è diventato degno di essere esibito con orgoglio quale piatto tipi-
co della cucina livornese. Infatti tutte le attestazioni che sottolineano il legame tra città e pietanza non sono particolarmente antiche e risalgono (per quanto mi consta) a non prima degli inizi del secolo scorso o al massimo alla fine dell’Ottocento.



Non mancherà persino un omaggio letterario: Oliviero Cocchi (1871-1941), scrittore umoristico e vernacolo noto con lo pseudonimo di Diomede o Mede Baffoni, pubblicherà nel 1913 una parodia del più celebre dramma di Sem Benelli (La cena delle beffe, 1909, (fig.1) intitolata La cacciuccata delle celie, scritta ricorrendo all’improbabile metrica di ottave di versi sciolti. Il Cacciucco (fig.2) è il titolo di un’opera dello scrittore e pittore viareggino, di origine perugina, Cristoforo Mercati (1908-1977), in arte Krimer, edito nel 1937 con le illustrazioni di Lorenzo Viani (1882-1936), scomparso l’anno precedente. Quest’ultimo, anch’egli scrittore oltre che pittore, fu strenuo difensore della versione viareggina del cacciucco con triglie e ghiozzi e divenne involontariamente responsabile della levata di scudi labronici in difesa della ricetta nostrana, sempre
più spesso esibita come simbolo cittadino, anche in memoria delle origini multietniche della città comparate col miscuglio di pescato che il cacciucco prevede.
In questo contesto nacquero anche gli sfottò riguardanti il numero di “c” presenti nella grafia corretta: i Viareggini, che come i Lucchesi manifestano talvolta qualche problema con le doppie, preferivano la dizione “caciucco” che per i Livornesi era di per sé una chiara dimostrazione della castrazione della pietanza, a cui era stata tagliato un c......e.
Infine ricorderei volentieri Gastone Razzaguta (1890-1950), autore di un bel capitolo dedicato al cacciucco nel suo scritto più noto e più nostalgico, Livorno nostra (1948), e di Cacciucchesca, (fig.3), una raccolta per l’appunto molto variegata di 99 racconti di fantasia o ripresi dalla realtà, conclusi nel 1950 e pubblicato postumi nel 1951 dalla casa editrice Tirrena. Si articolano in tre sezioni dai titoli significativi: Il pettine della cicala, La pelle del gattuccio, Le lische dello scorpano.
Ma la maggiore manifestazione di identità ed appartenenza tra Livorno e il cacciucco fu sostenuta dal fascismo locale, in particolare nella persona del “Ganascia”, all’anagrafe Costanzo Ciano, il gerarca consuocero del duce. Il Regime, che di populismo se ne intendeva e non perdeva mai l’occasione per incoraggiare la sfera emotiva collegata ai miti di appartenenza, organizzò cacciuccate estive da tenersi per le strade tra Borgo Cappuccini e Piazza Mazzini, accompagnate da spettacoli, musica, conferenze. La più memorabile fu quella dell’8 Agosto 1936, di cui parla estesamente Il Telegrafo di quei giorni, in associazione alle notizie trionfalistiche sulla resa degli ultimi ras etiopi e alle posizioni del Governo nei confronti della guerra civile spagnola. L’aria di tempesta che stava profilandosi all’orizzonte fu scongiurata per quella notte da balli, canti e libagioni oceaniche necessarie a spegnere il piccante demoniaco di tonnellate di pescato, ostinatamente impermeabile all’acqua benedetta con cui era stato asperso il giorno avanti da don Serafino, parroco dei SS. Pietro e Paolo (fig.4). E questo fu per molto tempo l’ultimo evento che ebbe per protagonista il cacciucco e la sua relazione con l’orgoglio cittadino.