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La Madonna di Montenero – Le ragioni della leggenda (terza parte)

Prima che la ricerca delle fonti e l’applicazione di criteri scientifici all’attribuzione del dipinto potessero restituirci un percorso storicamente attendibile, per vari secoli l’unica spiegazione che veniva offerta sulla origine dell’Immagine era di natura leggendaria.

di Giorgio Mandalis

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Prima che la ricerca delle fonti e l’applicazione di criteri scientifici all’attribuzione del dipinto potessero restituirci un percorso storicamente attendibile, per vari secoli l’unica spiegazione che veniva offerta sulla origine dell’Immagine era di natura leggendaria. Ancora oggi per chi la preferisce ai prosaici dati reali - pur sfrondandola di alcuni elementi agiografici quali l’acheropitia (non essere stata dipinta da mani umane), la traslazione angelica dalla precedente sede di Negroponte e la sua capacità di comunicare ad un pastore con voce umana - la leggenda rimane nell’immaginario come la portatrice di una sua verità, facendo leva sull’idea diffusa che in fondo tutte le leggende nascondano nella loro trama una qualche dose di storicità. Ne è derivato un percorso o per meglio dire un tentativo di razionalizzazione che, dissolvendone, come si diceva, gli eccessi portentosi, potesse costruire una visione se non proprio storica almeno plausibile di quanto dovette accadere. Ecco così che, a causa della prossimità al mare del luogo dell’Apparizione, si è supposto uno dei tanti naufragi (fig.1) e la dispersione conseguente del carico della nave, tra cui il dipinto, lungo le rive del rio Ardenza. Niente di più credibile che a ritrovarlo fosse stato un pastore, considerando che la zona mantenne la sua vocazione a pascolo di ovini fino a tempi relativamente recenti (fig.2). Il resto viene da sé: la segnalazione dell’Immagine alla comunità e al clero di Livorno e la decisione di custodirla in una nuova cappella ad essa dedicata, ma non sul luogo del ritrovamento, dove sarebbe apparso più logico, bensì sul vicino colle di Montenero,  senza che ne venga chiarito il motivo se non con l’espressa volontà della Vergine.

La leggenda, come sempre succede per le narrazioni che non pretendono il crisma della storicità, col passare degli anni andò arricchendosi di dettagli, di anacronismi e di contraddizioni. La prima redazione di cui si ha notizia è comunque tarda rispetto al XIV secolo, risale al 1589 ed era riportata in uno scritto di anonimo sulla Madonna di Montenero pubblicato a Firenze ed oggi perduto. L’opera è citata in nota nei suoi annali Origini di Livorno (1647) dal padre agostiniano Nicola Magri, il quale aggiunge un documento manoscritto sicuramente non trecentesco, come si evince dall’uso che si fa della lingua volgare, ed anch’esso perduto ma conservato ai suoi tempi presso la biblioteca del santuario. A quest’ultimo scritto fa riferimento anche il gesuato padre Carlo Moraschi, nel suo Storico racconto dell’Immagine pubblicato a Livorno nel 1660, il testo più antico dedicato espressamente all’argomento che ci sia pervenuto. Le altre redazioni della leggenda che contribuiscono a definirla nella versione corrente appaiono nell’Inno di anonimo composto nel 1690 in occasione dell’incoronazione della Vergine e del Bambino, nell’opuscolo Sette giornate in Montenero del teatino P. Raffaello Savonarola (1719) e nella Istoria della miracolosa Immagine di N.S. di Montenero di P. Giorgio Oberhausen (1743), che abbiamo già conosciuto a proposito dell’attribuzione del dipinto a Margaritone d’Arezzo. 

Ecco alcuni passaggi che negli anni subirono modifiche proprio in assenza di un documento storico che definisse chiaramente i termini dell’accaduto: per il Magri la Madonna avrebbe parlato ad un “pastorello”, il quale nella redazione dell’anonimo del 1690 diventa “da gl’anni carco” e per il Savonarola non solo “decrepito per l’età” ma anche “stroppio da un piede”, caratteristica mai menzionata prima; che poi il pastore dopo l’ascesa del colle fosse rimasto “guarito prodigiosamente dal suo storpiamento” ce lo racconta per primo l’Oberhausen; se il manoscritto accennava al fatto che il dipinto “miracolosamente si partì” da Negroponte, è solo il Moraschi a parlare esplicitamente di un trasporto condotto dagli angeli. 

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Del Moraschi è anche il caso di ricordare un interessante dettaglio aggiunto alla redazione della leggenda: due zelanti eremiti laici, per fare risparmiare la strada e la fatica della salita ai devoti pellegrini, portarono l’Immagine nella cappella sorta nel frattempo sul luogo dell’Apparizione, “ma si trovarono nel loro innocente disegno delusi, perché tornò incontanente da sé medesima al Monte”. 

A questo proposito c’è da dire innanzi tutto che un tale prodigio risulta comune a varie redazioni di leggende scritte per altre immagini miracolose, che cioè esse ritornassero spontaneamente alla sede prescelta dopo essere state arbitrariamente collocate altrove. Inoltre il Moraschi immagina l’esistenza di una cappella sul presunto luogo dell’Apparizione in una imprecisata epoca, comunque antica, in cui alla custodia dell’Immagine dei “romiti laici” avrebbero preso il posto degli Agostiniani (in realtà i primi custodi erano francescani terziari a cui succedettero i Gesuati della Sambuca). Ma la prima attestazione dell’esistenza della cappella risale solo al 1601, come riportava la lapide registrata da Pietro Vigo nella sua Guida (1902) che menzionava anche il nome del donatore, un certo Niccolò Prunai, macellaio, senza fare alcun riferimento all’Apparizione. Solo nell’anno dell’ampliamento della cappella in una chiesa avvenuto nel 1723 (figg.3-4), a spese del ricco mercante Giuseppe Gerbaut, si leggeva sulla lapide dedicatoria che (traduco dall’originale in latino) “l’Immagine, miracolosamente trasportata in questo luogo nell’anno della salvezza 1345 apparve qui ad un pastore”. La chiesa settecentesca verrà distrutta, assieme alle due lapidi, nel 1943 e ricostruita nelle forme attuali negli anni 1953-56, perpetuando così la tradizione di sapore agiografico (fig.5).

A completare questa sequenza di aggiustamenti del nucleo originale della leggenda si segnala, per concludere, un vistoso anacronismo che contribuisce a sottolineare l’età tarda in cui essa sarebbe stata confezionata: già nel manoscritto riportato dal Magri si afferma che l’Immagine, lasciata l’isola di Negroponte, nome con cui i Veneziani chiamavano l’Eubea e che nel 1345 faceva parte del loro impero marittimo, “pervenne in Cristianità nei nostri Lidi”, come se i Greci non fossero cristiani per di più devotissimi alla Thetòke Pàrthene, alla Vergine Madre di Dio, e i Veneziani non fossero Cattolici Romani. Più esplicito ancora l’anonimo dell’Inno del 1690 secondo cui la Madonna “Sazia di star tra ‘l popolo ottomano / Senza il dovuto meritato onore” aveva deciso di emigrare sul lido toscano. Ma in realtà i Veneziani dovettero soccombere all’invasione ottomana molto più tardi, nel 1470, data che potrebbe anche essere utile per stabilire un terminus post quem della nascita della leggenda, redatta certamente da qualche monaco molto devoto ma anche molto poco informato in materia storica.

Che la leggenda risalga agli anni della Controriforma (ricordo che la più antica redazione nota, per quanto perduta, risale al 1589), non ci dovrebbe affatto stupire, anzi ci sarebbe da meravigliarsi del contrario. È in quel periodo, tra gli ultimi decenni del XVI e i primi del XVII che, in antitesi con  le posizioni di Lutero e Calvino, furono diffusi con la stampa, le prediche, i dipinti e i santini quasi tutti quei racconti, molto simili nei contenuti, che si ricollegano alle origini delle immagini miracolose, con l’intento di diffondere tra i fedeli un senso di devozione che facesse leva più sul sentimento che sulla ragione. Nel caso di Montenero, non è una coincidenza, sono anche gli anni in cui l’antico castello di Livorno sta trasformandosi in una città e in un porto di rilevanza mediterranea, creandosi così un collegamento tra la protezione della Vergine, il nuovo insediamento urbano e i viaggi per mare. Una testimonianza dell’arcivescovo di Pisa Pietro Jacopo Bourbon del Monte, in visita ufficiale al santuario nel 1575, attesta che esso era diventato meta di “molti naviganti”. E non è escluso che l’idea di far provenire l’immagine dalla Grecia fosse collegabile, come ha ipotizzato il prof. Giangiacomo Panessa, alla presenza in città della comunità ellenica accolta da Cosimo I per servirsi della conoscenza delle rotte e degli empori mediterranei. Meno chiaro perché dovesse provenire proprio dall’Eubea piuttosto, cito due nomi a caso, che da Creta o da Corfù. Chi può dire se da Negroponte fosse realmente giunta la misteriosa immagine oggetto del culto spontaneo sorto nel 1341 e subito represso dall’Arcivescovo di Pisa o l’icona che per circa quarant’anni fu venerata a Montenero prima del dipinto del Gera: ma queste sono solo ipotesi prive finora, e temo per sempre, di riscontri.

La credenza che la leggenda potesse avere una base di storicità, che in effetti possiamo riconoscerle, come si è già avuto modo di dimostrare, almeno nel datare l’origine del culto (non quella dell’attuale dipinto) al 1345, ebbe come diretta conseguenza due viaggi organizzati a distanza di poco meno di due secoli per ricercare il luogo esatto in cui l’Immagine sarebbe stata venerata prima di apparire sulle rive dell’Ardenza.

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È ancora il gesuato padre Moraschi nella sua opera pubblicata nel 1660 a testimoniare che dieci anni prima  - quindi intorno al 1650 - il capitano di una galera della marina toscana di nome Fabrizio Corpi era salpato per l’Eubea con questa mira. Non era la prima volta che egli si imbarcava, nel senso letterale del termine, in imprese del genere: nel 1628 aveva portato a Livorno dalla Sardegna le spoglie di Santa Vigilia, proclamata compatrona della città e protettrice dai terremoti. Giunto nell’isola che si protende parallela alle coste dell’Attica pensò di aver identificato il luogo che stava cercando nelle rovine di un monastero ortodosso presso una località chiamata Saitone, dove la tradizione locale attestava la presenza di una Thetòke a cui ancora veniva accesa una lampada votiva, malgrado l’immagine fosse scomparsa da molto tempo, sembra sottratta da un monaco per salvarla dalle scorrerie turche.

Nel 1845 monsignor Pirro Tausch, canonico della diocesi di Livorno e fratello del console del Ducato di Modena, scriveva al console generale d’Austria ad Atene pregandolo di far luce sull’attendibilità del racconto seicentesco. Ne fu incaricato un avvocato greco, tale Giovanni Papamanoli, esperto di ciò che all’epoca si intendeva per “archeologia”. Pietro Vigo, in appendice alla sua Guida, riporta il suo resoconto dell’indagine, redatto in una comprensibile lingua italiana. Il buon ricercatore ammise che in una località al centro dell’isola chiamata Seta (fig.6), un piccolo villaggio montano (di Saitone nessuna traccia), esisteva un monastero di cui restava ancora parte dell’iconostasi raffigurante i dottori della Chiesa Ortodossa ed uno scomparto vuoto da cui era stata sottratta l’immagine di una Vergine col Bambino. Il Papamanoli  riportando l’altezza del vano indica che era di circa tre palmi (75 cm., incompatibili quindi con l’altezza della tavola di Montenero che è di 95 cm.), e riferisce che la sparizione, a detta dei locali, risaliva al tempo degli “iconomachi”, coloro che fanno guerra alle immagini sacre, un nomignolo affibbiato dai Greci ai Turchi per le loro scorribande profanatrici. Ciò doveva verosimilmente risalire ad una data successiva al 1470, anno della conquista ottomana dell’Eubea e comunque ben oltre il 1345, quando l’isola era saldamente in mano ai Veneziani. Così il tentativo di accreditare di una consistenza storica la leggendaria origine euboica del dipinto naufragava per sempre. Del resto oggi potremmo anche aggiungere la riflessione, impossibile all’epoca, su quanto fosse improbabile sperare che tra le icone dei dottori della Chiesa Greco Ortodossa si trovasse traccia di una Vergine di stile gotico dipinta da un maestro pisano almeno quattro decenni dopo il fatidico 1345

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