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La Madonna di Montenero (quarta e ultima puntata)

Nella notte tra il 4 e il 5 Agosto 1971 furono rubati gli “ori” dalla sacra Immagine, mai più restituiti o ritrovati.

di Giorgio Mandalis

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Nella notte tra il 4 e il 5 Agosto 1971 furono rubati gli “ori” dalla sacra Immagine, mai più restituiti o ritrovati. Un furto odioso, come tutti i furti, ma con l’aggravante del sacrilegio, perché fu un atto di violenza perpetrato ai danni della sensibilità religiosa dei fedeli che da secoli avevano espresso la  devozione donando i loro gioielli, non ad una tavola dipinta ma a chi essa raffigurava, alla Regina del Cielo e al suo divino Fanciullo. L’immagine aveva accolto in sé le preziose applicazioni fin dal 1690, quando in una solenne cerimonia di cui è rimasta testimonianza in un opuscolo dell’epoca, Madre e Figlio erano stati incoronati e tali bidimensionali corone metalliche avevano trasformato la stessa iconografia del dipinto suggerendo l’idea di una Maestà seduta su un prezioso cuscino che a sua volta poggiava su un invisibile trono (fig.1).

Se nella raffigurazione della Vergine le immagini successivamente donate al Santuario per grazia ricevuta potevano sorvolare sull’orecchino, sulle collane e su altri dettagli di orificeria, non omisero mai di rappresentare le teste coronate, come se fossero state dipinte dallo stesso Gera da Pisa.

Anche volendo per un momento escludere l’aspetto sacrilego, si può affermare che pure in una prospettiva laica il furto degli “ori” rappresentò una perdita incolmabile, perché anch’essi facevano ormai parte della storia, essendo stati sottratti ad un dipinto a suo modo vivo, esposto al culto, non appeso nella sala di un museo per studiosi e  appassionati d’arte.

Pertanto è solo da un punto di vista strettamente iconografico e di fruizione estetica che si può affermare che l’assenza delle preziose offerte abbia oggettivamente restituito il dipinto ad una percezione analoga a quella provata da chi lo vide nel tardo Trecento, quando da Pisa fu trasportato a Montenero.

Dopo il furto la tavola fu sottoposta a restauri conservativi nel 1974 e nel 2006, perché la superficie era stata danneggiata  dalle antiche applicazioni e dai recenti strappi dei gioielli e, naturalmente, dalle normali alterazioni che il tempo aveva provocato sul fondo a foglia d’oro e sui pigmenti pittorici (figg.2,3). Sono così emersi alcuni dettagli importanti che erano stati adombrati dalle ricche donazioni.

Privata della corona e dell’orecchino è più facile scorgere in Maria i lineamenti di una giovinetta, poco più che bambina. I capelli pettinati con una scriminatura centrale appaiono raccolti con cura e su di essi si adagia il manto azzurro, orlato di ricami d’oro, che ricopre la consueta veste scarlatta, colori simbolici subito percepiti da un fedele del Trecento ma che oggi forse necessitano di una spiegazione: la regalità celeste (oro e azzurro) e l’ardore della carità (rosso) o la purezza unita alla sofferenza. Lo sguardo assorto e malinconico, forse presago dello strazio profetizzato da Simeone, cerca un dolcissimo contatto non col Figlio, come avviene spesso nella statuaria e in alcune pitture pisane del Due e Trecento, ma col fedele. Di particolare effetto è la scelta di rappresentare il volto di tre quarti, come se la Vergine stesse voltando lo sguardo dal piccolo Gesù verso l’osservatore, rivelando la sua funzione di mediatrice.

I restauri e la possibilità di una visione ravvicinata, che la fotografia ha potuto divulgare, hanno messo in luce altri significativi dettagli. Sul manto appaiono due stelle, una terza non è visibile solo a motivo della postura perché tre sono previste dall’iconografia medievale. Simboleggiano le tre virtù teologali, Fede Speranza e Carità, che in Maria trovano la loro più compiuta espressione. Esse hanno anche relazione con l’etimologia che San Girolamo attribuì al nome, derivandolo dall’ebraico Miriàm il cui significato è stilla maris, goccia del mare, ben presto trasformato in stella maris, stella del mare, molto più ricco di suggestioni soprat-

     tutto in relazione alla giusta rotta che un metaforico navigante nella tempesta debba seguire per giungere alla salvezza. Inoltre le due figure appaiono all’interno di un arco  a sesto acuto, e sull’aureola della Vergine appare la scritta latina a caratteri gotici, già rilevata dall’Oberhausen che poté vedere l’immagine da vicino, AVE MARIA MATER CHRISTI, altri elementi - arco gotico e iscrizione - che escludono categoricamente una presenza dell’Immagine all’interno di una iconostasi greco ortodossa. Insomma, nessuna Theotòke odighìtria.

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Grazie al restauro sono apparsi con evidenza altri dettagli ancora che rivestono un significato simbolico certamente ben leggibile nel Trecento, ma che oggi necessitano di un chiarimento. Il cuscino e l’abito indossato da Gesù simulano un ricamo eseguito con filo d’oro, a imitazione di tessuti veri dell’epoca. La figura che li decora rappresenta un fiore di cardo che subito richiama la presenza del cardellino, tenuto al laccio dal Bambino e così chiamato perché ama nutrirsi di semi di cardo. Anche in Latino è presente la figura etimologica: carduelis il cardellino, cardus il cardo. Sant’Isidoro di Siviglia nelle sue Aetymologiae (XII,74) pone il cardo in relazione  alla corona di spine, assumendo così il valore simbolico di un richiamo alla Passione di Cristo.

Lo stesso uccellino, secondo una antica leggenda di età imprecisata comune anche al pettirosso, si sarebbe provocato la tipica mascherina macchiandosi col sangue di Gesù, nel tentativo di alleviarne le sofferenze sulla croce estraendo qualche spina dalla corona. 

Il gesto del Bambino di tenere il cardellino al laccio non va dunque letto come una nota di realismo, quasi che l’abbia imprigionato per trastullarsene, bensì come un’allusione alle sofferenze che dovrà patire da adulto di cui è già consapevole, ma che è capace di domare, di controllare. Così il tenero abbraccio materno si colora di presagi dolorosi ma anche di confortante speranza. Ispirato ad un tono di affettuosa intimità è pure il gesto del Bambino di appoggiare la mano destra sul seno materno, anziché di benedire ieraticamente, come avviene in molti dipinti dell’epoca.

Infine la collocazione del cuscino. Appurato che non è poggiato su un trono perché non siamo in cospetto di una Maestà, non ci resta che immaginarlo sul terreno. Il non spazio del fondo oro non ci consente una inconfutabile lettura in questo senso, ma è lì che dobbiamo pensarlo avendo come alternativa quello di vederlo fluttuare negli spazi celesti. Se questa lettura è corretta, ci troveremmo di fronte ad una Madonna dell’Umiltà, motivo iconografico ricorrente che pone la Vergine seduta in basso, secondo l’etimologia latina di humilitas (umiltà) da humus (terreno).

Ma la percezione dell’Immagine non è solo un problema iconografico e di interpretazione iconologica. Grande rilevanza assume anche la collocazione del dipinto che appare determinante per la funzione che svolge, cioè quella di un mezzo sensibile per avvicinare il fedele all’invisibile. è un auxilium culti perché la venerazione, come ribadisce anche il più recente catechismo della Chiesa Cattolica, non dovrebbe essere rivolta all’immagine dipinta, ma a ciò che essa rappresenta.

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Nulla sappiamo del suo posizionamento originale, tra la fine degli anni Ottanta del Trecento e il 1530, quando i Gesuati, un tempo eremiti alla Sambuca, essendone divenuti dalla metà del secolo XV i nuovi custodi commissionarono allo scultore fiesolano Silvio Cosini il nuovo altare di marmo in cui inserirla (fig.4). Tale pregevole opera del Rinascimento fiorentino è visibile nella sacrestia del Santuario, ed oggi mostra una copia dell’Immagine nello scomparto che per due secoli ospitò il dipinto originale. La tavola è posta ad altezza d’uomo o poco di più, per cui tra il fedele e la Vergine si stabiliva un contatto visivo diretto e in qualche modo reciproco. Questa mistica intimità verrà tradita dalla teatralità barocca, quando Giovanni Del Fantasia, a partire dal 1721, progettò la monumentale scenografia in cui l’Immagine appare tra raggiere, nuvole e angioletti  che, anticipando di alcuni anni il Rococò francese, sostituiscono i motivi profani di rocce e conchiglie tipiche di quello stile (fig.5).

Il dipinto inserito in tale contesto a circa cinque metri da terra è sicuramente percepibile da ogni punto della navata, e suggerisce non solo il sentimento di una protezione che cala dal cielo ma anche la piccolezza dell’uomo di fronte al divino. Si tratta di un linguaggio perfettamente in linea con la sensibilità della Chiesa dell’epoca, ma tutta la delicata intimità espressa dal Gera e rispettata dalla collocazione cinquecentesca si dissolve. Così il fedele deve volgere in alto lo sguardo senza poter più incontrare in modo diretto quello della Madonna di Montenero. Anzi, si può affermare con certezza che per quasi tre secoli la percezione dell’Immagine fu favorita dalle numerose stampe, dai santini, dalle copie pittoriche conservate in varie chiese livornesi, perché il contatto con l’originale era stato precluso dall’altezza della collocazione e dalla sovrapposizione degli “ori” che ne nascondevano buona parte della superficie pittorica.    

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