Le bombe che spezzarono il mio cuore di fanciullo. Il ricordo di Otello Chelli.

12 Feb 2024 | Autore: Bruno Damari, STORIA

Era una splendida giornata di primavera e nel cielo azzurro non c’era nemmeno uno straccio di nuvola, forse nel pomeriggio avremmo fatto il bagno sulla Spiaggetta dei Calafati, alla Tura, sotto il ponte spezzato, davanti alla Fortezza Vecchia. Erano momenti molto dolorosi per me quelli dei giochi; Doretta, la mia inseparabile compagna di corse sui navicelli e sull’Erta degli Arrisi’atori, non c’era più, uccisa dalle bombe che avevano distrutto la stazione di Pisa. Mi mancava terribilmente e ad ogni atto compiuto precedentemente con lei, gli occhi cominciavano a pizzicarmi e le lacrime formavano un velo che copriva il mondo tutto attorno a me.

Quel mattino io e i miei fratelli Anna, Enio e Marisa, eravamo assiepati davanti al camino dove mamma preparava la farinata gialla e con noi c’erano altrettante bocche da sfamare, quelle dei figlioli di Assunta, la madre di Cecco, recatasi in Prefettura per avere notizie del marito dato per disperso in guerra.

Eh, sì, eravamo in guerra e i sacrifici da fare moltissimi, troppi, come se quelli della nostra vita quotidiana di poveri in canna non fossero già a sufficienza. Comunque in quel fatidico, maledetto mattino, Mamma aveva portato in casa un bel po’ di farina gialla e così ne avremmo fatto una bella scorpacciata; era questo il pensiero che andava in su e giù per la mia mente mentre lei versava quella piccola cascata gialla nella pentola, un lieve rivolo d’oro scintillante ai raggi del sole che riempiva di luce la finestra spalancata, mentre ero impegnato a scuotere forte forte la ventaglia davanti al riquadro nero del camino, cercando di far prendere bene il carbone e dare vivacità al fuoco che già, da sotto la pentola, faceva alzare al cielo un nugolo di scintille.

D’un tratto sentimmo il suono lugubre delle sirene, ma non ci fecero paura, convinti come tutti eravamo che gli americani non avrebbero mai bombardato la nostra città. Chi diceva grazie a Padre Saglietto, il nostro venerato parroco, da tutti creduto il confessore della Regina Elena alla quale, secondo i più, aveva chiesto di far risparmiare Livorno dai suoi parenti, i reali d’Inghilterra. Molti, invece, affermavano come questa intangibilità fosse dovuta all’amore della Madonna di Montenero per la sua diletta città, amore dimostrato in tempi di terremoto e colera, perciò capace di impedire anche i bombardamenti.

Infatti, dopo quella misera “bombetta” lanciata dai figli della “perfida Albione” nel 1940, subito dopo l’entrata in guerra del nostro Paese, niente e nessuno ci aveva più disturbati e questa credenza popolare si era trasformata in piena convinzione. Eppure la guerra infiammava tutti i continenti e in Italia i bombardieri avevano colpito molte città, osando addirittura far cadere i loro ordigni sulla stessa Roma, culla della civiltà occidentale e del Cristianesimo. Queste considerazioni ci avevano reso sicuri: Livorno sarebbe rimasta un’oasi felice e così, in quel mattino di primavera, continuammo come sempre a non preoccuparci, affaccendandoci intorno al camino, pregustando la sempre più prossima mangiata.

Passarono solo pochi minuti poi, nel silenzio seguito all’urlo lacerante delle sirene, cominciammo a sentire nel cielo un brusio strano, inusuale, ben presto trasformatosi nel rumore sinistro di potenti motori d’aeroplano, accompagnato dal rumore ovattato della “Foranuvole” che sparava i suoi poveri colpi, autarchici anche quelli. In noi cominciò allora a risvegliarsi un’atavica paura. Alcuni attimi d’incerta attesa, poi i nostri orecchi furono dolorosamente colpiti da un lacerante, insopportabile, terrorizzante, fischio multiplo cui seguì lo scoppio tremendo delle prime bombe che impattavano al suolo, vale a dire sulle nostre case. Con il cuore in gola, smarriti nei gorghi della paura, sentivamo i grappoli di ordigni disintegrare i grossi fabbricati del nostro quartiere e con essi tutti coloro che vi abitavano ed erano rimasti in casa, come noi, dopo il suono della sirena.

Le terribili esplosioni si susseguivano incessantemente e Mamma, lei non sembrava per niente confusa, ci ordinò di prenderci tutti per mano e tra il crollo dei muri, il rumore dei vetri che si disintegravano, il rombo cupo di una tempesta senza eguali, ci fece scappare come topi fuori dalla nostra casa, trascinandoci verso via del Porticciolo.

Attraversammo il viale Caprera che ballava come percosso dall’orrida mazza di un gigante mentre i vetri continuavano a sibilare tutto intorno a noi coprendo la strada con quella che sembrava una pioggia scintillante. La polvere saliva dalle case distrutte diventando un nebbione impenetrabile in mezzo al quale rischiavamo di soffocare.

Le urla della gente in fuga erano assordanti come gli scoppi tambureggianti delle bombe e mentre correvamo verso il Paradisino, incespicando contro una valanga di ostacoli invisibili, alcune lingue di fiamma cominciarono ad alzarsi qua e là, tra le case che crollavano lentamente su se stesse con un rumore scricchiolante, terribile che in seguito avrei riconosciuto in quello che anche oggi paragono ad uno strappo del cielo quando scoppiano i fuochi artificiali.

Sempre trascinati da mamma in quel girone dell’inferno, c’infilammo dritti dritti nella bottega di Rineo, il tortaio, dove trovammo tantissima gente. C’erano la Pampanina con la figlia Marisa e la nipote Angiosi, tutti i Pedani, Ersilia, la moglie di Arsace, Tuponano Corradi, tutti i Gallinari, Nargisa, Attao e la Ciucia con il Negus, Bianca e Lina, il Mutolino, Gana Voliani, quella del negozio d’alimentari e Zela Guantini, anche lei padrona di una bottega, oltre a molti altri dei nostri amici e alcuni militari.

Il fischio lacerante delle bombe che cadevano a grappoli sembrava volerci strap-

    pare gli orecchi dalla testa, la bottega tremava come fosse un essere vivente in preda ad una terribile convulsione.

“Qui si rischia di fare la fine dei topi – mi disse Mamma – bisogna andarcene di volata”.

Detto fatto la vidi togliersi la pezzola dalla testa, avvicinarsi alla cannella dell’acqua dove venivano lavate le teglie di rame nelle quali Rineo cuoceva la torta, bagnando bene il suo fazzolettone, anche se le ci volle un po’, perché di acqua ne arrivava un filo. Poi strappò il riquadro in tanti pezzetti e ci chiamò vicini a sè.

“Prendetene uno per uno e quando vi porterò fuori da qui, copritevi il naso e la bocca, perché si rischia di soffocare dalla polvere che c’è. Voglio traversare il ponte, capito?”.

Ci riprese per mano, lei in cima e io a chiudere la fila di quella specie di catena umana e ci dirigemmo a tentoni verso il ponte seguiti da un altro gruppo dei nostri amici, mentre i colpi di maglio che distruggevano il mio quartiere si susseguivano ossessivi, con terrorizzante continuità. Attraversammo il ponte e, stranamente, mi venne in mente il giorno in cui Attao mi aveva stretto un canapo alla vita e scaraventato nel fosso; in quel momento era l’acqua a colpirci in pieno, scagliataci addosso dalle esplosioni che provocavano grosse ondate e infine, quando fummo dall’altra parte, Mamma vide come anche lì fosse tutto un inferno e allora, rapida come sapeva esserlo solo lei, ci trascinò giù, verso lo scalandrone di sinistra, facendoci entrare in una spaziosa cantina dalla porta di legno massello mezza scardinata.

Ad accoglierci il coro isterico delle donne impegnate a recitare con l’angoscia nel cuore l’Ave Maria e Artemisia, rinfrancata dal successo di quella traversata nell’orrore, rivolgendosi ad alcuni uomini seduti vicino alla porta disse quasi urlando: “Siete proprio dei bischeri, eh? A noi ha fatto comodo la porta aperta, ma voi non capite proprio nulla. Forza, chiudetela, sennò le schegge faranno tonnina di tutti noi”.

L’incessante martellare delle bombe, accompagnato da quell’orribile, terrorizzante sibilo, durò un’eternità, così ci sembrò, poi, d’improvviso, su tutto si distese un manto di impenetrabile silenzio, nel quale sarebbe stato possibile sentire anche il ronzio del volo di un calabrone. Un silenzio pauroso, per un po’ peggiore del fragore orribile delle esplosioni. Anche le donne tacevano attonite, non recitavano più con tono piagnucoloso l’Ave Maria; sembravano in preda ad uno stupore paralizzante, immobili come un baco nel suo bossolo, ma quando fuori della cantina, per la strada, cominciammo a sentire alcuni richiami, qualche urlo agghiacciante di donna e il rombo dei motore di camion, accompagnato dal brusio della gente che usciva dai rifugi e dai ripari improvvisati iniziando un esodo totale verso le campagne intorno alla città, fummo sicuri della fine di quell’apocalisse provocata dall’inaspettato bombardamento e noi, il sollievo era evidente in tutti, ne eravamo gli scampati.

Il sommesso parlare della gente ancora sbigottita si trasformò ben presto in un corale lamento, un gemere doloroso per quello che a tutti i superstiti era apparso davanti agli occhi. La completa rovina del quartiere, un paesaggio lunare al posto delle case e numerosi incendi che ormai era inutile spengere; le nostre case erano completamente crollate sotto le bombe. Per molte donne la preoccupazione dei figli, dei mariti, dei propri cari impegnati al lavoro e quindi da cercare disperatamente, si accompagnò all’atroce pensiero di non trovarli più vivi.

La prima ad uscire fu lei,

Artemisia, ma alcuni membri della Milizia la fermarono: “Di qui non si passa, rientrate dentro, in porto

    c’è una nave carica d’esplosivi incendiata da una bomba e potrebbe esplodere”.

Lei non si faceva certo facilmente intimidire e ripresa la mano del primo di quella nostra fila ricompostasi come quando avevamo attraversato il ponte, si fece largo a spintoni, urlando come un’ossessa, perché doveva cercare la madre di quattro di quei ragazzi probabilmente rimasta in Prefettura.

La seguivamo come automi; i miei occhi vagavano tutto intorno a quello che fino al mattino era il mio regno. Vedevo le case distrutte, i navicelli affondati nei fossi, la gente smarrita, annichilita, tra i mucchi di macerie, come persa in un brutto sogno. Mamma ci spronava a camminare svelti e, alla fine, trovammo Assunta in piazza Grande, bloccata da un cordone di militi messi lì ad impedire l’ingresso nel quartiere.

“E’ pericoloso, le case crollano continuamente e c’è la nave delle munizioni” – urlavano a squarciagola.

Mamma consegnò all’amica i suoi quattro figli e volgendosi a me disse: “Andiamo, vi lascio da nonno e vado a cercare babbo”.

Detto fatto ci dirigemmo verso via della Madonna dove abitavano i nonni con la zia Jolanda e suo marito Gino e li trovammo nella loro casa rimasta intatta.

“La solita fortunaccia, eh Gino?” – disse la mamma e sul viso le apparve un accenno di sorriso, nonostante il dolore provocato dalle numerose ferite inferte dai vetri che ricoprivano le strade da lei calpestati a piedi scalzi. Non si era nemmeno accorta del sangue che perdeva, tanta era la preoccupazione per la sorte di mio padre che al mattino si era recato in porto a lavorare.

Quando decise di muoversi per iniziare quella incerta ricerca mi buttai sulle cattive e volli andare per forza con lei.

“Tu lo sai, mamma, quanto ti dia retta. Ora no, perché devo venire con te a cercare babbo, hai capito? Sono grande ormai e di me puoi fidarti, lo dici sempre tu e oggi più che mai, visto come mi sono comportato sotto le bombe”.

Il suo sguardo sembrava leggermi fin nell’anima, un rapido accenno di sorriso e mi strinse al suo petto: “Vieni, vieni, figlio mio. A te non potrà mai accadere niente”.

Camminammo per tutto il resto della giornata senza riuscire a trovare mio padre. I responsabili dell’ordine nella città bombardata ci fecero fare il giro delle sette chiese e ogni volta lei si metteva ad urlare come un’ossessa, perché voleva suo marito, poi, sulla sera, quando le prime ombre cominciavano a nascondere la rovina dei palazzi, ci fermammo al chiosco del giornalaio in piazza Grande, all’entrata del Porticciolo e d’un tratto, come per un colpo di magia, eccolo là, mio padre, nero come il carbone, i vestiti stracciati, ma vivo e vegeto.

Un breve grido di mamma, una rincorsa e un abbraccio frenetico ci strinse tutti e tre. Eravamo salvi, ma non potevamo restare nel nostro quartiere, dovevamo andare in campagna e fu mamma a scegliere il Gabbro, perché là c’erano già tutti i veneziani sfollati prima del bombardamento.

Mentre lei tornava a prendere i miei fratelli, mi avviai

   con babbo verso casa nostra per cercare di recuperare qualcosa: “Vi aspetto da nonno – disse mia madre – fate presto è già buio e di sicuro stanotte dovremo dormire all’aperto”.

Entrammo in via del Porticciolo da una piazza Grande irriconoscibile per i palazzi crollati. Nella stretta strada che conduceva in Venezia c’era un via vai di ambulanze impegnate nel trasportare i feriti all’ospedale dove nei grandi prati verdi erano state montate anche numerose tende con dipinte enormi croci rosse. La gente si fermava atterrita a parlare del cataclisma piombatoci sulla testa e ben presto si era sparsa la voce sui grappoli di bombe caduti dritti, dritti, sui rifugi dei Canottieri (Scali D’Azeglio) e in via dei Riseccoli, uccidendo centinaia di persone.

La via del Porticciolo era completamente ostruita da mucchi di minute macerie e noi dovemmo scavalcarle con molta fatica per superare il ponte e fu là che vedemmo i primi morti, allineati lungo il marciapiede, povere bambole spezzate da una violenza fino ad allora sconosciuta.

Entrammo sul viale Caprera e S. Ferdinando ci apparve mezza distrutta e così il convento. Tutto intorno soltanto palazzi completamente crollati o diroccati e il nostro stabile, il Casamentone, un enorme montagna di macerie. Mi si strinse il cuore a vederlo, era stato disintegrato dalle bombe e noi non avevamo più una casa.

“Madonna, che botta ci hanno dato!” – mormorò babbo con la voce incrinata dalla commozione. Io lo seguivo e sentivo gli occhi dolere come fossero pieni di minuscole scaglie di vetro. Il dolore investiva il mio giovane cuore come le onde del mare spinte dal libeccio si infrangono violente sugli scogli. Impietrito guardavo la rovina precipitata sul mio mondo devastando l’anima mia fanciulla, lacerandola con crudeli artigli d’avvoltoio.

Il mio rione, il mondo fiabesco dell’infanzia, il regno incantato dove noi ragazzi vivevamo liberi e felici, quelle stradine in cui avevo corso come un matto e amato, riamato, la mia povera Doretta e dove nonostante la miseria, noi, ancora innocenti dei mali che percorrono il mondo a cavallo di mille tempeste, eravamo puri come cristalli di rocca. Non potevo credere ai miei occhi, respingevo quella realtà; la follia degli uomini aveva completamente distrutto il mio quartiere, la mia casa, i miei sogni. Improvvisamente, forse perché la mente rifiutava quella terribile visione, fui preso come da uno stordimento; pochi attimi e mi riscossi, compresi la necessità di essere forte. Presto il dolore, quella terribile lacerazione subita, sarebbe stato sostituito dalla lotta accanita e senza esclusione di colpi per sopravvivere, ma dentro di me, nel profondo di ogni mia fibra, lo scenario di apocalittica distruzione disteso davanti ai miei occhi si incise profondamente nell’anima e mi avrebbe seguito, con permanenti cicatrici per tutta la vita e per sempre avrei rimpianto gli anni che precedettero quel terribile giorno di morte e distruzione.

Ci riscuotemmo da quei tristi pensieri trovammo un varco e entrammo nella chiostra di casa nostra da via Sant’Anna, perché la facciata dello stabile era un invalicabile mucchio di macerie. Fu una vera e propria scalata in alta montagna, fra travi e pietre instabili. Da quello che era stato il cortile interno dello stabile, la chiostra, come la chiamavamo noi, vedemmo semi intatta soltanto una parte della camera di babbo e mamma. L’inferriata divelta ci permise di penetrarvi, dopo esserci arrampicati tra i pezzi di muro che tremavano continuamente minacciando di crollare da un momento all’altro. Ci calammo nel buio della stanza diroccata e vedemmo il letto letteralmente seppellito dal soffitto che lo copriva come un rigido lenzuolo, ma il canterale era intatto, così aprimmo le cantere e aperto un lenzuolo rattoppato ci depositammo tutto il contenuto, povere cose di scarso valore, ma un vero tesoro per chi aveva perso tutto.

Uscimmo fuori da quella stanza con una infinita tristezza e ritornati sul viale Caprera, trasformato in un infernale labirinto, ci allontanammo dal quartiere, dove avevo lasciato il mio cuore e raggiunta Mamma, in attesa con i fratelli, caricammo tutto sul carretto trovato per noi da Nonno Dante e ci incamminammo per raggiungere il Gabbro.

Nonno e lo zio Gino avevano insistito molto perché andassimo con loro a Parrana San Martino, ma noi volevamo raggiungere i nostri amici e, per volontà di Mamma, sopratutto, declinammo l’invito.