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La mia pallacanestro ai tempi del Cama e dei mitici ‘Pallini’

Quando soffermandomi in Via Verdi, chiacchierando con un amico, udii le voci concitate di tifosi, intenti a seguire un qualche evento sportivo, credo fosse l’autunno del 1955. Incuriosito, entrai nella sede della Confraternita della Misericordia, guadagnando subito il giardino retrostante l’edificio dove si stava svolgendo una partita di pallacanestro tra la squadra di Livorno e l’AS Roma.

di Ettore Visibelli

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Quando soffermandomi in Via Verdi, chiacchierando con un amico, udii le voci concitate di tifosi, intenti a seguire un qualche evento sportivo, credo fosse l’autunno del 1955. Incuriosito, entrai nella sede della Confraternita della Misericordia, guadagnando subito il giardino retrostante l’edificio dove si stava svolgendo una partita di pallacanestro tra la squadra di Livorno e l’AS Roma. I tifosi, su una tribunetta in tubi Innocenti, non saranno stati più di un centinaio; altri, più vicini alla staccionata in grigliato che delimitava il campo, erano quelli dalla voce più scalmanata. All’amico, entrato insieme a me, domandai che partita fosse e lui, più informato, mi spiegò che si trattava di una partita della massima serie (allora chiamata Prima Serie Elette), nella quale militava, appunto, la squadra di Livorno, targata Cama, sigla che identificava lo sponsor – diremmo oggi – che all’epoca era chiamato il finanziatore, ossia, trattandosi ancora di uno sport dilettantesco, era colui che pagava l’iscrizione al campionato, le trasferte e gli indumenti dei giocatori, sulla cui maglia spiccava la scritta CAMA, a significare Caramelle Malaguzzi, dal nome dell’azienda di Valerj Orazio Malaguzzi (1925-2010), un distinto signore operante nel settore dei dolciumi.

Malaguzzi era anche presidente della squadra mentre l’allenatore (oggi si direbbe coach) era Sergio Pinoschi.

La squadra faceva fatica a restare nella massima serie: ogni vittoria era di sostegno alla speranza di permanenza, in un periodo nel quale il campionato si decideva tra la Virtus  Bologna, la Borletti Milano e la Storm (poi Ignis) Varese. Quel giorno il Cama fu sconfitto dai romani per 53-59, nonostante i  16 punti di Henry Bockrath, un militare americano di stanza a Camp Derby ed uno dei pochi stranieri che militavano nelle squadre italiane. Quello sport mi catturò, tanto da tornare sulla tribunetta della Misericordia in occasione della partita con la Virtus, all’epoca sponsorizzata dalle Industrie Meccaniche Minganti, che stava dominando il campionato grazie ai suoi assi come Alesini, Calebotta, Negroni e Gambini, quest’ultimo assomigliante al cantante Arigliano al quale qualcuno del pubblico non si stancava di gridare “Arigliano, cantaci Jessica!”. La nostra “stella”, Stelio Posar, ce la mise tutta per impensierire la formazione bolognese: realizzò ben 28 punti ma non furono sufficienti per evitare la (preventivata)

     sconfitta (60-79 il risultato finale).

Scoprii che a Livorno si giocava anche sul campo di via Micali e c’era un’altra squadra di pallacanestro, la Libertas, presieduta da Dino Lugetti e allenata da Otello Formigli, militante in serie B e che faceva capo alla Democrazia Cristiana, ma che, iniziando dai dodicenni nati nel 1942, a partire dal 1954 aveva organizzato la Leva Cestistica, il torneo ideato da Bruno Macchia per quei ragazzi che in qualche modo si erano preparati all’interno di società o dopolavori che avessero un campo con due tabelloni.

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Tra Cama e Libertas, nonostante la rivalità -  o forse proprio per quella - la pallacanestro cittadina continuò a crescere fra alti e bassi, promozioni e retrocessioni. Attingeva le promesse dal vivaio degli juniores, figli della Leva, e saliva tra le grandi. Vendeva i pezzi migliori per mancanza di fondi e retrocedeva. Una continua altalena ad anni alterni.

Ma il tifo degli appassionati livornesi cresceva ad ogni nuova stagione e quando la federazione impose un campo al coperto alla pallacanestro delle serie maggiori, per Livorno, privo di un palazzetto dello sport, si presentò un problema non da poco da risolvere.

Per due-tre stagioni, nella seconda metà degli anni ‘50, fu rimediato un capannone, in via Leonardo da Vinci, verso il porto industriale, dove un angolo della vasta area fu riadattata per creare un terreno di gioco con una tribuna (sempre in tubi Innocenti) da dedicare al pubblico. La sede era conosciuta come “I Pallini”, nome del capannone destinato un tempo a produrre pallini da sparo. Lo spogliatoio dei giocatori fu improvvisato all’ingresso del comprensorio, con un centinaio di metri da percorrere a piedi per entrare in campo. Piovesse o tirasse il libeccio, facesse freddo o il sole spaccasse le pietre, specie gli ospiti erano costretti a una camminata, prima di entrare nell’arena delle ‘belve’ ad attenderli. Fra i tifosi non mancava mai un’istituzione: un invalido con due stampelle, noto come Fumalicche, che di partite non ne perdeva una, sostenendo la squadra con una voce stridula ma imperiosa, incitato da tutto il pubblico.

Di allora resta, nel ricordo di tutti i tifosi, la insperata vittoria contro la fortissima Ignis Varese per 73-72, con il tiro del sorpasso di “Nanni” Nieri a due secondi dal termine. Fu tripudio sugli spalti e un bimbetto festoso entra in campo a fine gara, con un gestaccio di mano e braccio rivolto a un giocatore ospite, il quale, di rimando, gli allunga un ceffone. “I bimbi nooo, un si toccano ehh!”. Fece seguito un’invasione di campo, con zuffa e cazzotti tra pubblico e giocatori ospiti, fin quando quei due o tre carabinieri presenti scortarono la squadra avversaria fino agli spogliatoi. Io e qualche amico, in piedi sul tavolato della tribunetta, non sapendo come reagire, intoniamo Fratelli d’Italia.

Il tifo c’era, eccome se c’era! Ma c’era anche qualcosa in più. Ricordo una volta, prima di una partita, una di quelle che per salvarsi dovevamo vincere con una concorrente alla retrocessione, al famoso campo dei Pallini, che proprio un palazzo dello sport non era. Basti considerare che il campo di gioco era delimitato da paletti, tenuti in piedi da buchi nel pavimento, cementati in fretta e furia a sorreggere un canapo che correva lungo tutto il perimetro.

Prima dell’inizio ero vicino al canapo e dall’altra parte della recinzione (si fa per dire) l’arbitro fu avvicinato da un giocatore del Livorno - il cui nome non voglio riportare - che col sorriso sulle labbra lo salutò cordialmente: “Salve Signor Arbitro; partita chiave per noi. Da vincere a tutti i costi.Non possiamo deludere i tifosi. E qua i tifosi non scherzano, lo sa anche lei, vero? Se dovessimo perdere, oggi pomeriggio di qui un uscirebbe vivo nessuno. Mi raccomando a lei: soprattutto eviti gli errori. Ma lei è bravo, lo sa fare benissimo”.

La partita fu vinta e l’arbitro fece il suo dovere di giudice eccellente e anche… imparziale. 

Dal 1960, ultimato il palazzetto CONI dietro lo stadio,

    le partite di pallacanestro furono giocate in un ambiente più raccolto, ma non meno infuocato dal tifo degli appassionati livornesi.

Libertas e Pallacanestro Livorno continuarono a sfornare talenti che sistematicamente migravano nelle migliori squadre del nord. Mi piace ricordarne qualcuno, chiedendo scusa in anticipo a quelli che dimenticherò nella fretta e data l’età: Posar, Nesti, Andreo, Lombardi, Maurizio e Massimo Cosmelli, Villetti, Sarti, Bufalini, Orzali, Raffaele, Vatteroni, una serie di talenti che se fossero ritornati a giocare nel Livorno, da dove erano partiti, avrebbero da soli potuto formare l’ossatura della Nazionale Italiana.

Ma accanto a loro mi piace ricordare anche i due grandi allenatori, capaci e tenaci: Otello Formigli (sponda Libertas) e Alfredo Damiani (sponda Pallacanestro). Due bandiere del cestismo livornese, mai disposti ad arrendersi nel saliscendi da una serie di promozioni e retrocessioni, con squadre prive di sovvenzioni che con l’entusiasmo riuscivano a tenere il passo delle grandi formazioni del nord.“Poveri ma belli” era il loro motto.

Di Otello, scomparso nel 1989, a 71 anni, è rimasta famosissima anche la sua filosofia: il basket per lui era sopratutto se non soltanto una cosa, quella di “Mettere la palla nella canestra”. Sì, la canestra: al femminile.

Alfredo, detto “Pillola” per il suo lavoro di farmacista, pure lui allenatore caparbio e mai domo, ha avuto pure il merito di rimanere in sella come dirigente fino agli ultimi giorni della sua vita (scomparve il 30 giugno 2015, alla bella età di 95 anni).

Noi adolescenti eravamo l’animo vocale (anche troppo) della tifoseria, senza tuttavia conoscere la violenza, come oggi purtroppo dimostrano bene di conoscere gli ultras. Semmai sboccati sì, a voler essere sincero. Sostenevamo sempre la squadra con le grandi società che vincevano a Livorno, sapendo bene che la lotta era impari, con i nostri giocatori bisognosi del supporto caloroso del pubblico affezionato. Ma quando accadeva che la squadra non girava contro avversari battibili, mancando canestri già fatti, perdendo palle facili a favore dell’avversario o sbagliando passaggi determinanti, non era improbabile che dal pubblico qualcuno di noi urlasse: “Mettetici le ‘onche ar posto de ‘anestri!”. Oppure, rivolti al bravo allenatore: “Formigli, chiedi un’ora!”. Anziché il solito minuto a disposizione, per interrompere il momento felice dell’avversario e riordinare il proprio quintetto; a sottintendere che un minuto sarebbe stato insufficiente a evitare una frittata già servita in tavola. Quando questo accadeva il solerte Sandrino Lomi, Presidente della Libertas, ci guardava con occhi di bragia, da dietro il tavolo dei segnapunti e cronometristi, dove solitamente si appostava per tutta la partita, per poi apostrofarci quando c’incontrava, faccia a faccia, dandoci dei traditori vigliacchi che tifavano contro, anche se in verità non era affatto così.

Povero Sandrino se n’è andato a 92 anni una decina di anni fa (2012), nel rimpianto di tutti quelli che l’hanno conosciuto per la sua passione di dirigente sportivo della Libertas.

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