Per Irene, per sempre.

27 Feb 2024 | Autore: Stefania D'Echabur, PERSONAGGI

“A volte scopro che il cielo è troppo azzurro da guardare, la bellezza non è contemplata nel dolore”. 

Ho scritto questa frase il 15 aprile 2020, la mia bimba ci ha lasciato il 12 aprile nella notte di Pasqua, qualcuno mi ha detto che quando avviene, le porte del Paradiso sono spalancate. Hanno suonato le campane delle Chiese della Città e dopo pochi minuti lei è volata via.

Il mio Angelo ha smesso di soffrire. L’ho lasciata andare via accarezzandola come si accarezza un neonato, la madre che le ho dato la vita, ha aiutato la sua creatura a lasciarla.

Il momento peggiore è quando apro gli occhi al mattino, pochi secondi di incoscienza per poi scoprire che la mia Irene non c’è più, so che in qualche modo mi devo attivare, anche se mi chiedo per cosa e per chi, ma è un dovere, perché noi, “io e lei”, la vita l’abbiamo sempre amata e onorata, e così dopo un “Buongiorno Amore Mio” con fatica riparto in un mondo che improvvisamente mi sembra di pongo, e nella ripartenza oggi scrivo di Lei.

Mi nutro dell’affetto che sta arrivando in maniera smisurata da ogni parte e sotto ogni forma, familiari, amicizie, persone che non conosco e che vogliono fare arrivare un messaggio, il mondo della sua musica, i medici… cerco di fissare ogni parola, ogni frammento è importante perché Lei resti. Faccio scoperte, lei che ha sostenuto e dato un aiuto con un sorriso o una dritta a pazienti oncologici, Irene che in questo filo di comunicazione ha detto di non piangersi addosso, di vivere questa “vita alternativa” nel fare e nel bello.

Tutto è partito il 12 giugno 2017. Dopo attimi di incredulità e terrore, scendendo le scale dell’ospedale, senza un momento di esitazione l’ho guardata dritta nei suoi occhioni e la sua mamma “colorata” come mi ha sempre definito lei, le ha detto: “Amore mio, non remiamo contro questa cosa, facciamola nostra e abbracciamola, altrimenti ci schiaccia”.

E così è stato, quasi tre anni di calvario, la parola giusta è “calvario”, ma lei non l’ha mai menzionata, trentaquattro mesi fatti di sentenze, sei operazioni e cicli interminabili di chemioterapia pesanti, giorni fatti di analisi, Pet, Tac, medicine, ospedali e Irene ha preso tutto senza mai brontolare o dire che tutto questo era ingiusto.

Alla bestia ha dato inizialmente il suo utero salutando la maternità, “mami, in casa nostra un bimbino adottato non c’è mai stato, vorrà dire che sarò io la prima” e nel frattempo è arrivato il suo micino Rubino, creando con il suo compagno la loro famiglia.

Combatteva. Combatteva, con coraggio e dignità, con la luce negli occhi, col sorriso, non si è mai sentita malata, anche quando il suo aspetto è cambiato e per tre volte ha perso i suoi meravigliosi capelli e quando il suo fisico statuario si è appesantito di chili in eccesso.

Ci soffriva sia ben chiaro, ma era concentrata sul da farsi. In questi mesi dove ha dovuto allontanarsi dal suo lavoro, commessa da sette anni da Stroili, in via Grande, ha creato la linea di gioielli MIB, improvvisandosi artigiana, ha preso un diploma di Computer, ha gestito senza interferenze tutti i suoi appuntamenti, si è battuta negli uffici per i suoi diritti di invalida. Ha progettato la sua nuova casa. Irene ha combattuto con intelligenza e sfoderando un carattere incredibile.

La mia “leonessa” ha combattuto questa brutta “bestia” fino all’ultimo giorno, ha vissuto ogni istante della sua vita con tenacia, un testamento etico per chi resta.

Un giorno le ho detto: “Sei la mia bimba, il mio ossigeno, ti amo, ti adoro, sei sempre stata la mia 3B, bella, brava, buona, ma ti devo dire una cosa, oggi ti guardo e vedo una donna e senza pensare che sei la mia figliola, in questo momento sto vedendo una donna che stimo, una donna che ha aperto le braccia al mondo, che prende tutto l’affetto che le viene dato, dissacrando e ridendo. Brava topa mia!”.

Lei così riservata, a volte algida, ha buttato giù un muro, lei di poche parole è diventata una chiacchierona, ha raccontato quello che stava vivendo con grande autenticità, senza mai impietosirsi verso se stessa.

Con il suo compagno Simone, l’Amore, hanno fatto progetti, lo sguardo sempre rivolto verso il futuro, lui che all’inizio era spaesato, ha imparato velocemente grazie all’amore che li univa, a trovare nuove forze, insieme hanno affiancato ad ogni cosa brutta una altrettanto bella, in questi tre anni di malattia, ogni suo desiderio era una sfida, ci sono stati fiori, regali, amici, cene, viaggi, la casa nuova. Simone è stato instancabile nel renderla felice, l’ha viziata e brontolata, accarezzata e l’ha aiutata nel non farla sentire un giorno diversa dalla donna che aveva scelto di avere al suo fianco.

Non so se negli occhi degli innamorati, ritroverò mai uno sguardo come il Loro.

Irene ha avuto intorno un mondo di affetto “impazzito d’amore” per lei, poteva essere umano in tanti mesi che l’attenzione venisse meno. Non è successo.

La sua famiglia – La cosa più che naturale, il giorno che mamma e babbo l’hanno messa al mondo le hanno fatto una promessa: “Sarai una bimba felice!”. Una mamma che ha fatto il suo dovere, perché ho sempre sostenuto che non sono i figli a chiedere di venire sulla terra e ogni giorno ho cercato di ascoltarmi sempre meno, il cuore di una mamma deve essere congelato in certe situazioni, e pensare che mi dava fastidio quando aveva un raffreddore, così ho dovuto creare una corazza granitica e siamo andate avanti, sorridendo, scherzando e litigando quando ce n’era bisogno. Un babbo a cui rivolgersi, sapendo che ogni sua richiesta sarebbe stata esaudita, dal pescino fresco alle frittelle di riso. Un babbo che le ha regalato una delle ultime gioie, il 13 febbraio a Casa Modigliani, quando Irene, seppur indebolita, ha raccolto tutte le sue forze per essere in prima fila alla presentazione del libro del suo babbo: “Père-Lachaise, un disegno cinque franchi – Una storia per Modì”. In questa famiglia si sono aggiunte le mie sorelle e le “cugine-sorelle”, un nucleo al femminile che giornalmente con un amore incessante sono state al nostro fianco come colf, autiste, cuoche, contabili, consulenti… mamme due a tutto tondo, lei sapeva di poter contare su di loro incondizionatamente e spesso le ha detto “Come farei senza di voi…” e aggiungo che anch’io devo dire un grazie a loro per la mia forza, anche se la parola grazie era tabù.

Gli amici e i genitori degli amici – Uomini, donne e ragazzi speciali, condivisione, sorprese, barche, feste, cene, regalini, bisticci e pace, viaggi. Nel mezzo un matrimonio importante, quello di Virginia dove si è resa organizzatrice insieme a lei, con accortezza e immensa felicità, dove hanno ballato e cantato fino alle cinque del mattino e Irene ha potuto indossare il suo abito da Principessa.  Un altro matrimonio quello di Martina, un’amica che ha fatto capolino nella sua vita inaspettatamente, un cuoricino d’amica, tanta gioia è arrivata anche dalla nascita dei bambini delle sue amiche e lei, la “zia Irene” l’ha respirata tutta.

La sua orchestra, Ensemble Bacchelli e Rita – Dall’età di nove anni, una seconda famiglia, dove fare musica d’insieme vuol dire crescere insieme agli altri, crescere attraverso la musica con un animo gentile e disciplina, quella disciplina mentale che si materializza su ogni ostacolo che la vita presenta. Non sarò mai riconoscente abbastanza a questa grande famiglia, per la vicinanza, per i compiti da casa che altra “mamma 2” da sempre, Rita Bacchelli le ha dato nel farla sentire attiva. La musica che ha permesso di veicolare sensazioni inespresse, un violino che in questi tre anni non si è mai arreso, ha parlato attraverso le melodie suonate, dove la commozione pungeva gli occhi insieme a un abbraccio corale. Ci sono stati Concerti significativi dove ho visto il viso di Irene irrigidirsi e illuminarsi mentre suonava, ha dialogato con i suoi spartiti e affidato a loro le sue paure. Ogni serata è stata importante, dal concerto tra gli studenti a quello in Accademia Navale con la cuffietta da sera che brillava, ma l’ultimo, di quest’estate in porto sulla nave da crociera Silver Gold è stato un immenso regalo, perché è riuscita ad esserci, era l’ultimo dei dodici appuntamenti e gli altri per motivi legati alla sua salute li ha dovuti saltare. Mi ha mandato le foto del tramonto: “Mami, sono felice”, le foto della sala: “Mami sembra di essere sul Titanic”, lei nel suo abito da sera abbracciata al suo Simone e Mami è stata in porto seduta sulla bitta, a respirare da lontano attraverso le luci della nave questa grande magia.

Le mie amiche e i miei amici – Che nei tanti giorni alcuni sono diventati i suoi amici, con inviti, dolcetti fatti in casa, persone a cui sapere di potersi rivolgere per ogni consiglio. Video a sorpresa, di buon augurio, musicali, video che hanno usato il linguaggio dei nostri ragazzi rapportandosi a lei, struggenti per ballare e dissacrare la malattia, coinvolgendola in progetti, video dall’altro capo del mondo. Amici che hanno tenuto un dialogo segreto con lei e a volte mi hanno tranquillizzata. A voi il mio Grazie con la mano sul cuore.

Un’Amica – Francesca dell’Elba, più grande di lei, ha fatto sì che in questi mesi la sua casa, e anche la barca di Filippo, diventassero il suo posto per ricaricarsi. Uno pseudo paradiso terrestre. Dove oltre a tanta bellezza di bene e natura, Irene ha lentamente lasciato la sua testolina di “Topina Incipriata”, come spesso la chiamavo, alla donna morbida e senza fronzoli, spartana e selvaggia che era in lei. Ha fatto nuotate e tuffi, cantato a squarciagola in macchina e mangiato gelati sugli scalini per la strada.

Angiolo Gadducci –  In questa storia drammatica e crudele il suo Prof è stato la sua ombra, un uomo di scienza, ma è stato anche come un babbo. Le cartelle cliniche della mia bimba hanno viaggiato il mondo, incrociato navi spaziali, hanno abbracciato la Ricerca più avanzata, sono fermamente convinta che se non avessimo incontrato Lui, Irene non sarebbe andata avanti tutti questi mesi con una malattia definita “killer”, la persona a cui lei ha messo la sua vita in maniera totalizzante nelle sue mani, anche nei momenti più bui, quando lei leggeva, scandagliava e arrivava vicino alla tragica verità lui ha trovato fino agli ultimi giorni parole, mistificato e inventato risvolti per darle forza, quella forza che LUI, ha capito che ha tenuto in vita Irene per tanti mesi. Caro Prof, le voglio bene e si ricordi che c’è un gattino, il gattino di Irene che ha il nome in suo onore.

Oltre a queste persone ci sono tanti volti che abbiamo incrociato al quale dovrei dire grazie, volti con una frase, con la loro professionalità al Santa Chiara, a Cisanello, a Milano, a Pescia, negli ultimi giorni all’Ospedale di Livorno. Un grazie al nostro Comune, in tempo di coronavirus le cose per Irene si sono complicate, ho trovate porte a cui bussare che si sono spalancate, risposte e soluzioni immediate, persone di grande umanità. Tomasz, il nostro prete, che anche se sa che non eravamo donne di Chiesa, ha recitato con noi un’Ave Maria che tanto Irene amava, e trovato parole semplici e giuste.

Volti, occhi, sguardi. Movimenti delle mani, silenzi, lettere e pensieri. Energia.

E oggi, nei giorni che sono diventati surreali, il tempo si è fatto liquido e mistico, io e lei che avevamo imparato a gestire bene il tempo, senza il ritmo del “tic tac” e senza mai voltarci indietro, oggi senza di Lei, questa mamma deve fare i conti con un tempo futuro che le fa paura, perché non sono stata una mamma “onnipotente”, perché io, follemente innamorata della mia figliola pensavo che tutto l’amore del mondo non me la potesse portare via.

Devo reiventarmi un modo per guardare la Bellezza perché la bellezza senza la mia donna brucia come sale su una ferita.

E attendo. Paziente. Un segno. Un cuore. Una piuma o una foglia che mi dice “Mami sono qui”.

E mi sforzerò di mandarti ancora bacini, abbracci, un sorriso e serenità.

E aspetto che la mente torni lucida per inventare qualcosa perché la tua vita terrena, la tua “Bella storia di vita” resti viva e non sia stato solo un “passaggio”.

E non basteranno tutte le melodie e la poesia del mondo a lenire il grande vuoto, Amore Mio.

E mi prenderò cura della tua casina e di quello che c’è dentro, di Simone e del tuo gattino.

Insieme avevamo deciso di abolire la parola “ingiustizia”, devo imparare ancora una volta e molto, devo imparare a ritrovare il nostro “amore assoluto” per non dirla.

Noi tutti, come genitori in primis, siamo stati fortunati di averti avuto con noi, ma un fato ha disegnato tutto questo per Te, e Noi adesso abbiamo il dovere di dare un senso di nuovo alla vita, perché te questa vita l’amavi tanto, la respiravi appieno, quel respiro che ti è mancato per giorni e giorni e che ti ha strappato a noi.

Ma se Tu ci aiuterai, magari con un soffio e se saremo di nuovo insieme anche senza toccare le tue splendide manine, annusarti e toccarti, continueremo una pazzesca storia d’amore.

Per sempre “Ti Amo I.”

Mamma.