Editrice il Quadrifoglio
Livorno nonstop
Mensile di Attualità-Arte e Spettacolo rigorosamente Livornese
La mia prima volta allo stadio
«Finché non sarai andata almeno una volta allo stadio, non potrai dire di essere davvero diventata livornese»: me lo diceva come un vaticinio una delle prime persone con cui ho stretto una bella amicizia da quando, lasciata per sempre Firenze, sono approdata sulla tanto agognata costa labronica. E mi narrava di domeniche urlanti e mitologiche, di striscioni amaranto sventolati al cielo azzurro, di cori densi di pathos e... budelli di tu’ ma’. Ma tra pandemie, chiusure, distanziamenti e mascherine, io allo stadio non c’ero ancora andata. Poi, la domenica dell’ultima partita, davanti a casa mia ho visto tutto un via vai di gente d’ogni tipo, età e sesso, agghindata in alto stile per un evento evidentemente eccezionale. «È l’ultima partita di un triangolare che vede coinvolti il Livorno, il Figline Valdarno e il Tau Altopascio, l’occasione definitiva per l’accesso in serie D» mi spiegava mio marito, presenza abituale agli incontri della Magica Viola quando ancora non ci eravamo trasferiti nella città dei nostri sogni
Di Antonella Landi

«Finché non sarai andata almeno una volta allo stadio, non potrai dire di essere davvero diventata livornese»: me lo diceva come un vaticinio una delle prime persone con cui ho stretto una bella amicizia da quando, lasciata per sempre Firenze, sono approdata sulla tanto agognata costa labronica. E mi narrava di domeniche urlanti e mitologiche, di striscioni amaranto sventolati al cielo azzurro, di cori densi di pathos e... budelli di tu’ ma’. Ma tra pandemie, chiusure, distanziamenti e mascherine, io allo stadio non c’ero ancora andata. Poi, la domenica dell’ultima partita, davanti a casa mia ho visto tutto un via vai di gente d’ogni tipo, età e sesso, agghindata in alto stile per un evento evidentemente eccezionale. «È l’ultima partita di un triangolare che vede coinvolti il Livorno, il Figline Valdarno e il Tau Altopascio, l’occasione definitiva per l’accesso in serie D» mi spiegava mio marito, presenza abituale agli incontri della Magica Viola quando ancora non ci eravamo trasferiti nella città dei nostri sogni.
Tempo di scambiarsi un’occhiata d’intesa, attraversare la strada ed eravamo in coda alla biglietteria. «Però mi devi promettere che starai zitta e non mi farai fare figuracce: tu non sai come ci si comporta allo stadio, io sì, lascia fare a me» mi ha intimato tirannico il coniuge. Docile, ho annuito: avrei accettato anche novanta minuti di mutismo totale, pur di assistere a quella partita.
Ho capito che stavamo andando incontro a una giornata indimenticabile quando lui (che appunto sa bene come ci si comporta allo stadio) al cospetto della ‘bigliettaia’, mentre parallela a noi scorreva un’altra fila di giovani locali, ha avuto l’incauta idea di chiedere «due biglietti
per la tribuna vip». La bigliettaia non credeva alle sue orecchie, i giovani sono scoppiati a ridere dicendo che a Livorno l’è già tanto se lo stadio regge.
Ma è stato varcando i tornelli che mi si è spalancato davanti l’universo. Uno striscione lungo l’intera curva nord recitava «LIVORNO È LA MIA VITA NON SOLO ALLA PARTITA». Sotto, l’intero popolo amaranto, lo zoccolo duro della tifoseria, e un’accozzaglia armoniosissima di maglie, bandiere, striscioni, scritte, «Mecio vive», «Livorno resisti», «Forza Livorno», e perfino una gigantesca immagine femminile di Modigliani vestita a tema che sventolava appesa ad una asta.
Io dico la verità, del calcio non me ne importa nulla. La prima partita vista dal vivo in vita mia fu quella a cui mi trascinò mio padre: ero bambina e il poveretto, mi ricordo, doveva sempre richiamarmi all’ordine indicandomi la direzione della palla perché tutto io guardavo, fuorché quella. M’incantavano le persone, le scenografie, l’atmosfera impregnata di emozione, il clima umano.

Alla seconda invece mi ci portò un mio studente tifosissimo viola: siccome non studiava e faceva un monte di forche per stare a balzellare il passaggio di Batistuta, ricorsi a un patto ignobile ma didatticamente assai efficace, accompagnarlo al ‘Franchi’ in curva Fiesole se avesse rimediato almeno il quattro a Storia. Mi ritrovai in un giro di fumo che mi rincoglionì, raccattai una giubbata di freddo assassino e mi stramaledissi per essermi intortata in quella promessa. Lui venne promosso, io con gli stadi dichiarai che avevo chiuso.
E invece com’è stato bello, il mio primo pomeriggio al ‘Picchi’! Lo avevo sempre studiato da fuori, portando a spasso il cane, con quel restauro ingannatore che gli ha rinfrescato la facciata, mentre il retro sembra stato bombardato, tutto scortecciato e tappezzato di Pisamerda. Dentro, la situazione è meravigliosamente fatiscente: sembra di stare nello stadio di un paesone negli anni Settanta, due barrini presi d’assalto dai clienti, pezzi d’intonaco andati per sempre, e i megafoni al posto delle moderne casse che negli altri stadi amplificano le notizie. Per conoscere quanti minuti di recupero aveva dato l’arbitro, dopo il plin-plon musicale introduttivo, c’è stato da battagliare coi sibili, gli scricchiolii e i fruscii che s’interponevano all’annuncio di una suadente voce femminile. Però, onestamente, ma chi se ne frega dello stadio, quello che conta - ne converrete - non è l’architettura, ma l’umanità, e nessun paesone, nessuna città, nessuna tifoseria d’Italia può competere con Livorno in quanto a fantasia lessicale, creatività di comunicazione, inventiva d’espressione. Nessun altro oserebbe, con la giornata di sole e di caldo che era domenica 15 maggio, piazzarsi in capo un pesce imbottito colorato d’amaranto per incoraggiare undici ragazzi in campo con la maglia bianca. E nessuno, credo, farebbe quello che il livornese invece fa se la sua squadra lo tradisce e perde. Il livornese, di fronte a un caso simile, diventa un marito cornuto livoroso e assetato di vendetta. Per questo, quando il Tau Altopascio ha segnato e la partita si è avviata a un finale disastroso nonostante i nostri reiterati tiri in porta, finiti ahimè sempre o sul palo o sulla traversa, quando tutti si è capito che non restava più nulla in cui sperare, quando era palese che nemmeno da Montenero sarebbe potutopiovere un miracolo, ecco che abbiamo assistito al più fulmineo voltafaccia del labronico tifoso. È stato un attimo: all’improvviso il popolo non era più per la squadra, era contro di lei. E non urlava più «SAI QUELLO CHE IO SENTO È UN AMORE DENTRO CHE IO HO PER TE ALEOO», urlava concetti ben diversi che potrebbero essere riassunti nell’esplicito, reiterato imperativo «VERGOGNATEVI», detto e ridetto tante volte, e associato all’altro ordine perentorio e minatorio «SOTTO LA CURVA, VENITE SOTTO LA CURVA». Che io all’inizio ero convinta ce l’avessero con la squadra avversaria, magari anche con l’arbitro (fischiato e infamato in tutti i modi), invece macché, sotto la curva ci volevano il Livorno.
E infatti, dopo i tre fischi che decretano la fine del sogno, eccola, la squadra del Livorno, avanzare verso la curva consacrata a Fabio Bettinetti, le teste basse, le spalle a gruccia, il passo arreso, schierarsi frontalmente ai suoi tifosi delusi, amareggiati, spietati, imbestialiti, e sottoporsi a un pubblico ludibrio, a una gogna di massa, a cui i miei occhi non credevano. Oltre che esortarli al sentimento della vergogna, oltre che tacciarli di essere «VENDUTI», un consiglio ferocissimo è stato urlato dal popolo amaranto: «A LAVORARE, ANDATE A LAVORARE, A LAVORAREEE, ANDATE A LAVORARE» che (lo sa bene chi mastica un minimo di filosofia esistenziale locale) da queste parti costituisce la peggiore delle punizioni.
È finito così il mio pomeriggio al Picchi, dal quale sono uscita frastornata d’emozioni contrastanti, dall’attesa speranzosa del successo alla ritirata umiliante della sconfitta, mentre sullo stadio cadeva improvviso un velo denso di silenzio funebre. Si era passati dallo sgolamento generale al rifiuto d’ogni verbo, come se il dispiacere non trovasse le parole, e siamo usciti, folla umana che si distribuiva su strade limitrofe, muti.
Io sussurravo all’orecchio del mi’ marito: «accidenti come l’hanno presa male», ma lui intimava «zitta, se ne busca», che vorrebbe dire se ne tocca. E così anch’io mi sono allineata allo sciopero della parola, mentre a due passi, oltre l’Accademia, si distendeva il mare, mentre il sole baciava chi quel giorno maledetto aveva preferito lo scoglio, mentre l’estate esplodeva, e invece in noi settemila era sceso un autunno umido, grigio, e anziché nella città più bella del mondo pareva d’essere a una via crucis.






