Titta e Gilda, le sarte della ‘Livorno bene’ degli anni Sessanta.

19 Feb 2024 | Autore: Massimo Cappelli, STORIA

Titta – Si chiamava Laudice Lami Cappelli, mia madre, ma per tutti era “la Titta”. Alla mia domanda su chi avesse avuto l’idea di metterle quello strano nome mi rispose che era stata la contessa Carli, persona mai conosciuta. Poiché mia nonna era stata una governante della famiglia inglese Henderson, vecchi proprietari della villa dove ora è il Museo di storia naturale della Provincia in via Roma, ho sempre pensato che quel nome fosse scaturito da quella cerchia di persone.

Aveva frequentato la scuola sino alle medie inferiori poi era andata ad una scuola di cucito ed aveva cominciato a fare la sarta riscuotendo ben presto un certo successo per la sua abilità.

Con la fine della guerra e con la voglia di fare che caratterizzava i giovani di allora, mia madre nata nel 1919 era poco più che trentenne, l’attività crebbe e quella che sarebbe stata la  mia casa si trasformò anche in una sartoria.

E qui, quando parliamo di sartoria, intendiamo proprio la creazione di abiti. Cosa che oggi ritroviamo in pochissimi artigiani e soprattutto nelle case di alta moda dove ovviamente vi è anche la creazione del modello di abito.

Per quanto riguarda tutto il resto era svolto nel laboratorio artigianale.

Si partiva dai “figurini”, veri e propri dipinti ad acquarello degli abiti su cartoncini di formato poco più grande dell’A4, che la cliente sfogliava per scegliere quello che più le piaceva. Credo che questi ”figurini” fossero comprati a Firenze, culla della moda oggi come allora. Erano a volte impreziositi con lustrini od altro per evidenziarne gli ornamenti.

Una volta scelto l’abito iniziava il vero lavoro della maestra sarta: prendere le misure alla cliente e sviluppare il cartamodello, ovvero l’abito non assemblato sul quale lavorare la stoffa.

La scelta della stoffa era un altro momento importante. I negozi che allora andavano per la maggiore erano per mia madre principalmente quello di Tanzini, ma anche di Ruffo Coli.

Con Tanzini fu impegnata una volta anche nella partecipazione alla preparazione di una sfilata di moda organizzata all’Albergo Palazzo. Mi ricordo ancora l’apprensione di mia madre per la buona riuscita di quanto da lei lavorato. Una vera sudata!

Le stoffe erano in genere stoffe pregiate per vestiti importanti, stoffe calde per vestiti invernali o fresche per quelli estivi. Gabardine, lane, rasi, sete, lini etc..

Si procedeva dunque al taglio della stoffa scelta sulla traccia del carta-modello. Questa penso fosse una delle operazioni più professionali, da vero artigiano. Perché è indubbio che il lavoro fosse quello di alto artigianato e la famiglia di provenienza di mia madre era una famiglia prevalentemente di artigiani, con il mio nonno e i fratelli di mia madre maestri nel lavorare il ferro.

Dopo seguiva l’imbastitura del vestito, la sua cucitura alla quale avrebbe fatto seguito la prima prova con la cliente.

Ricordo alcuni nomi di clienti abituali appartenenti a importanti famiglie della città: signore Scazzola, Weiss, Marinari, Soriani, Sambaldi, Rossi, D’Alesio, Gabriel, Curto, Mei, Monti, Botti, Torricelli e tante altre.

Anche a loro proposito ricordo un episodio. Venne a farsi il vestito una signora, moglie di un dirigente venezuelano che seguiva la costruzione di una nave commissionata dal suo Paese al nostro Cantiere. Venne accompagnata da sua figlia, più o meno della mia età. Entrambi di circa otto anni. Erano bellissime, sia la madre che la figlia che venne a giocare con me mentre la madre seguiva il suo abito. Fu amore a prima vista che durò pochissimo, una mattinata. Eppure ricordo sempre questo episodio.  

Dopo la prima prova seguiva la finitura dell’abito e la prova finale. In genere bastavano due prove, raramente tre. Comunque un processo articolato in più passaggi che richiedevano maestria. La cucitura di abiti su misura porta ad un prodotto finale che serve ad esaltare le caratteristiche del cliente e, se necessario, ad attenuare alcuni difetti fisici, conferendo armonia alla figura della persona. In questo si gioca l’abilità della sarta e si cementa anche la fidelizzazione con il cliente.

Alcune delle clienti di mia madre, nel tempo, sono divenute anche sue amiche.

Diverse sono state le ragazze che hanno collaborato con mia madre. La gran parte di loro per molti anni, ne ricordo i nomi: Licia, Franca, Luana, Giovanna, Rosanna, Anita, Patrizia, la Titti. Tutte care persone mie amiche e quasi sorelle maggiori che praticamente vivevano otto ore al giorno in casa mia. Tutte ragazze che poi avrebbero utilizzato quanto appreso spesso lavorando in proprio come sarte e molti dei loro vestiti da sposa furono fatti da mia madre.

Tutta la mia infanzia è stata caratterizzata dai giochi con i miei coetanei che abitavano nello stesso palazzo e nella stessa strada, via dei Carrozzieri in Borgo Cappuccini, e dalla familiarità con l’ambiente di lavoro di mia madre.

Non si può certo dire che ci si annoiasse. La casa era sempre piena di gente, per lo più giovane e allegra e tante erano le risate che si facevano intorno al tavolo da lavoro.

Tra i vari episodi di quella vita ricordo che per un certo periodo ancora bambino, mi divertivo a irrompere nello spogliatoio delle ragazze nei momenti cruciali, creando scompiglio e buscando qualche scappellotto. Pratica cessata prima dei dieci anni e da loro sopportata perché alcune mi avevano anche portato a giro in carrozzina.

Mia madre più che le caratteristiche del capo aveva quelle della maestra ed infatti qualcuna così la chiamava. Più che autorità esprimeva autorevolezza che le derivava dalla conoscenza del mestiere e per la sua bontà e socievolezza.

Queste doti la avrebbero caratterizzata anche dopo, nella sua lunga vita prima della sua scomparsa a 93 anni, quando la casa divenne per molti anni, luogo di ritrovo delle amiche con le quali organizzava tavoli di gioco al ramino e cista. Così sino agli ultimi giorni, tutti vissuti con grande lucidità.

Gilda -. – Cerco una sarta!

– Difficile. Perché non vai da Zara oppure da HM?

Cercare una sarta oggi è come cercare un ago in un pagliaio. Eppure io ho vissuto in mezzo alle sarte e le ho viste da vicino. Vita operosa, umile, semplice.

Gilda era la mia mamma e faceva la “capa”, io sapevo di trovarla sempre lì: viveva in una stanza, il laboratorio, una grande stanza dove c’era un tavolone enorme con molte sedie intorno, modelli e figurini alle pareti e un po’ dovunque. è una stanza che ricordo molto luminosa ma fredda; si riscaldava con l’operosità.

Le “bimbe”, come si diceva allora, le “collaboratrici”, come si direbbe oggi, erano giovani e numerose. Ricordo Irma, Franca, Liliana, Tina, Mirella, Sara: giovani donne che volevano imparare il mestiere e racimolare un poco di soldi, scarsi per le ore che lavoravano, il lavoro non era troppo remunerativo.

Il lavoro per la mamma iniziava alle sei del mattino e si protraeva fino a notte, con una sosta per il pranzo, preparato dalla nonna. (A questo proposito bisogna dire che solo grazie alla presenza di questa nonna mia madre poteva lavorare: sollevandola da tutte le incombenze pratiche della casa e della famiglia).

Le “bimbe” arrivavano verso le otto, e trovavano il lavoro pensato, tagliato, predisposto. Io non capivo allora quanta manualità e creatività occorrevano per fare un vestito da passeggio, un cappotto, un abito da sposa o da sera. Mi ricordo però le ore e i giorni che tutte insieme passavano chine sul pezzo da lavorare per procedere passo passo fino alla realizzazione del manufatto. Pensarci oggi mi fa soffrire. Ideare, tagliare, “metter su”, provare, assestare, modificare, rifinire orli, asole, colli, stirare tutto a mano con perizia e pazienza. Penso che oggi nessuno può fare un tal lavoro – il prezzo di un abito sarebbe quasi irraggiungibile – allora ci si accontentava di lavorare un giorno intero per pochi soldi.

In certi periodi alcune delle ragazze restavano anche a mangiare, la mamma forniva loro un piatto caldo e poi loro si portavano qualcosa da casa. Era l’ora in cui chiacchieravano allegramente raccontandosi dei pretendenti fidanzati, prendendosi in giro, facendosi confidenze.

Poi i tempi cambiarono, il lavoro diminuì perché i prezzi non potevano più sostenere la concorrenza dei grandi magazzini.