Federico Fellini e Livorno.

15 Gen 2024 | Autore: Marco Sisi, IN EVIDENZA, IN PRIMO PIANO, PERSONAGGI

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Al regista vincitore di cinque premi Oscar, di cui uno alla carriera (gli altri per “La strada”, “Le notti di Cabiria”, “8 ½” e “Amarcord”) il Comune di Livorno ha voluto rendere omaggio con la mostra “Felliniana”, svoltasi recentemente ai Bottini dell’Olio.

Non tutti sanno, però, che il rapporto fra Fellini e la nostra città è stato anche più diretto e personale di quanto non lasci immaginare la sua filmografia come regista. Dopo aver iniziato a occuparsi di cinema quando andava ancora al liceo (cominciò a farsi un nome come caricaturista perché per promuovere i film il gestore del cinema “Fulgor” gli commissionò i ritratti dei divi, da esporre all’ingresso della sala), trasferitosi a Roma nel 1939, con il pretesto di iscriversi a giurisprudenza, entrò nella redazione del periodico satirico “Marc’Aurelio”, diventando popolare attraverso centinaia di interventi a firma Federico.

Frequentando gli ambienti dell’avanspettacolo iniziò a scrivere monologhi per Aldo Fabrizi e quindi a collaborare alle trasmissioni di varietà dell’EIAR, nei cui studi di via Asiago incontrò Giulietta Masina (1921-1994), che sposò il 30 ottobre 1943.

La collaborazione con autori del calibro di Marcello Marchesi e Vittorio Metz lo portò subito a partecipare (sia pure non accreditato, forse perché ancora minorenne) alla sceneggiatura del film Il pirata sono io! (1940, regia di Mario Mattoli) con Erminio Macario e Juan De Landa (Giuseppe Bragana in Ossessione di Luchino Visconti); molte delle battute pronunciate dal comico torinese sono uscite dalla penna di Federico Fellini.

Del film va ricordato che le riprese in esterni ebbero luogo a Calafuria, dove per l’occasione la celebre Torre fu circondata da elementi scenografici in legno e cartapesta per ricostruire il castello del governatore di un’immaginaria isola caraibica. I velieri usati dai pirati furono realizzati dall’impresa del commendator Tito Neri e comparvero anche in numerose scene de La figlia del Corsaro Verde (1940, regia di Enrico Guazzoni) con Fosco Giachetti e Doris Duranti, girato negli stessi luoghi e quasi in contemporanea. 

Il sodalizio con Marchesi, Metz e Steno sarebbe durato a lungo: fra gli altri titoli merita di essere ricordato un altro film prodotto a Tirrenia: Tutta la città canta (1943, regia di Riccardo Freda) con Nino Taranto, Vivi Gioi e Natalino Otto, la cui lavorazione però si interruppe a causa degli eventi bellici e politici dopo l’8 settembre 1943. La pellicola, originariamente intitolata 6×8/48, venne terminata e messa in circolazione dopo il 1945.

​Nel frattempo Fellini inizia a lavorare con Roberto Rossellini, partecipando alla stesura delle sceneggiature di due fra i più importanti titoli del nostro neorealismo: Roma città aperta e Paisà (dove per la prima volta si cimenta anche come regista, dirigendo una scena dell’episodio fiorentino, nel quale compare anche Giulietta Masina, inquadrata per pochi secondi sulle scale di un palazzo).

L’impegno nel cinema neorealista lo porta a collaborare anche con Alberto Lattuada: ne Il delitto di Giovanni Episcopo compaiono nomi che ritroveremo in seguito anche collegati a Senza pietà (1948): oltre al regista Alberto Lattuada, Folco Lulli, l’operatore Aldo Tonti e buona parte del cast di Vivere in pace (1945, regia di Luigi Zampa) che, assieme all’altro film dedicato alle vicende del mercato nero e della prostituzione Tombolo paradiso nero (1947, regia di Giorgio Ferroni) fu decisivo per la scelta di John Kitzmiller come protagonista al fianco di Carla Del Poggio.

«Vivere in pace nacque da un fatto vero» racconta Aldo Santini in Tombolo riportando la testimonianza di Luigi Zampa. «Suso Cecchi D’Amico e io stavamo cercando di fare un soggetto che avrebbe dovuto essere una storia sulle donne dello Special Service dell’esercito americano. La storia però non andava avanti. Alla terza o quarta riunione Suso disse: “Oggi ho incontrati una mia amica che mi ha narrato…”. E riferì che l’amica aveva una villa nei dintorni di Firenze, dove a volte i tedeschi capitavano per un tè, ma ospitava anche prigionieri americani scappati dai campi di concentramento che vestiva da contadini e spediva per i campi. L’unico guaio era che uno di questi ragazzi era un nero. Così quello lo nascondeva in cantina»…

Quella sarebbe stata la storia da raccontare nel film, ma a quel punto ci fu da darsi da fare per trovare un nero. A Zampa fu suggerito di recarsi a Livorno, e lì incontrò Kitzmiller, capitano dell’esercito USA, ingegnere chimico, con già il biglietto di ritorno. Il regista gli propose di recitare nel film e quello scoppiò in una risata, la stessa che poi avrebbe caratterizzato la sua interpretazione in Senza pietà. La lavorazione del film di Lattuada, fra la città e la pineta di Tombolo, fu caratterizzata da episodi movimentati, risse e scazzottate che coinvolsero anche il regista, gli attori e i componenti della troupe.

Fellini del film fu sceneggiatore (assieme a Tullio Pinelli) e aiuto-regista e anche in questa pellicola ci sono alcune scene che probabilmente sono state dirette da lui e non da Lattuada, come quella girata in porto al momento dell’arrivo del mercantile “Dudley H”, o come la scena finale, girata con due cineprese, una delle quale è chiaramente visibile nell’inquadratura ripresa dall’altra.

Giulietta Masina, interpretando il ruolo di Marcella, prostituta che scappa verso una nave americana a bordo di un barcone, vinse il Nastro d’Argento come miglior attrice non protagonista.

E sempre Santini, in Tombolo, dove racconta molti aneddoti legati allo svolgimento delle riprese, riferisce di una gaffe nella quale incorse con Fellini: «Gli domandai chi sarebbero stati gli interpreti di questo Goodbye, Otello (titolo provvisorio, N.d.R.). “Di sicuro Carla Del Poggio, la moglie di Lattuada, che ha appena lavorato per lui nel film Il bandito in una parte che ripeterà qui a Tombolo, quella della prostituta. E poi Folco Lulli. E pensiamo a un americano di colore, un Otello voluminoso insomma. Lo abbiamo già trovato grazie a Suso Cecchi D’Amico e a Ferroni, il regista Giorgio Ferroni. Ha già esperienza di attore, fisico monumentale e volto espressivo, molto adatto a una parte drammatica. Si chiama John Kitzmiller. Poi cerchiamo un francese che sia un tipo di carogna, detestabile. E ci sarà anche Giulietta Masina”. “E chi è questa Masina?” mi scappò detto. “È mia moglie”. Pinelli sorrise divertito. E Fellini non se la prese per niente».

    Va aggiunto che il “francese detestabile” cercato da Lattuada e Fellini, in realtà, era il portiere dell’Hotel Majestic di via Veneto a Roma, al quale venne dato lo pseudonimo di Pierre Claudé (scritto così, con tanto di inutile accento sulla “e”) e che fu doppiato dal livornese Stefano Sibaldi.

Molti degli attori di Senza pietà, oltre ovviamente a Lattuada e Fellini, che firmeranno assieme la regia, sarebbero comparsi di nuovo insieme nel cast di Luci del varietà (1950). Fu proprio questo aver diretto il film a metà con Lattuada il motivo per cui nel 1963 Fellini scelse il titolo 8½: «Perché? Perche con questo film ne avrò diretti otto e mezzo».

Il rapporto fra Fellini e Livorno, però, non si esaurisce con Senza pietà. A parte le voci che vorrebbero girata sulla spiaggia di Tirrenia, e non su quella di Ostia, una scena de Lo sceicco bianco (1952, con Alberto Sordi, Brunella Bovo e Leopoldo Trieste), pochi sanno che il nome del regista romagnolo è legato a un film di Mario Monicelli, Viaggio con Anita (1978, con Marcello Mastroianni e Goldie Hawn), di cui scrisse il soggetto circa vent’anni prima, subito dopo il successo di Le notti di Cabiria; era giunto a un passo dalla realizzazione, che poi saltò per improvvisi dissidi in seno alla produzione. Parti della storia originale sarebbero comparse in opere successive del regista, prima fra tutte La dolce vita, mentre il film di Monicelli, con tutte le varianti apportate per “contemporaneizzare” il racconto, si discostò sensibilmente dall’idea di partenza. Guido Massaccesi, dirigente bancario romano, informato dalla sorella Oriana che il padre Armando è gravemente infermo, lascia la moglie Elisa con il figlio e parte in macchina per raggiungere Rosignano Solvay, paese natale. Deciso a compiere il viaggio in dolce compagnia, Guido si reca nell’appartamento di Jennifer, amante che non vede da mesi. Il netto rifiuto della stessa a seguirlo lo induce a prendere con sé Anita Watson, una ventisettenne americana, occasionalmente venuta a Roma per ritrovare un architetto italiano. La ragazza, tenuta all’oscuro da Guido sul vero motivo del viaggio, all’inizio reagisce capricciosamente alle prepotenze del compagno. Giunti nei pressi di Rosignano Solvay dove nel frattempo il padre è spirato, l’incosciente Guido scarica Anita presso una pensioncina per raggiungere la famiglia. Anita scopre casualmente la verità e lo raggiunge mentre il funerale sta per avviarsi al camposanto. L’arrivo dell’americana provoca uno scandalo del quale Guido si vendica rivelando la presenza di Noemi, una donna amante del defunto da 18 anni.

Per concludere, vale la pena di registrare anche l’omaggio alla celebre figura della tabaccaia di Amarcord che Paolo Virzì volle inserire in Ovosodo, affidando a Daniela Morozzi il ruolo della prosperosa lattaia Luana.