Gli sviluppi del Porto di Livorno tra Otto e Novecento

23 Gen 2024 | Autore: Giorgio Mandalis, STORIA

Nel 1906 si costituì un comitato cittadino per discutere di un tema ritenuto improcrastinabile: lo sviluppo del porto di Livorno. Ne facevano parte esponenti dei vari settori sociali ed economici interessati alla realizzazione del progetto, tra cui il sindaco, Giuseppe Malenchini, l’ingegnere on. Salvatore Orlando e l’ingegnere Adriano Alberto Padova. A lavori conclusi, i due tecnici stilarono una relazione che aiuta ad entrare nel vivo dei problemi e delle proposte finalizzate a ricondurre la storica infrastruttura al passo coi tempi.

Non è inutile ricordare che proprio nel 1906 Livorno compiva trecento anni dalla elevazione del castello a città, un periodo di tempo irrisorio se paragonato alle tante realtà urbane della Toscana, molte delle quali risalgono persino al IX o all’VIII secolo a.C., ma pur sempre tre secoli percorsi da tante e tali trasformazioni sociali, tecnologiche, culturali e politiche da significare da soli, in termine di progresso, più dei tre millenni precedenti.

Per avere solo un’idea del concetto che provo ad esprimere, basti ricordare che i tre secoli in questione sono gli stessi che, riferiti al Nuovo Mondo, separano la catena di montaggio di Henry Ford dall’arrivo della Mayflower. E leggendo la relazione Orlando-Padova sembra a tratti che nel 1906 il porto di Livorno fosse per vari aspetti ancora strutturato come ai tempi dei Padri Pellegrini.

In verità, nel corso del XIX secolo, sia in età lorenese che sotto i governi del giovane Regno, erano state progettate e realizzate alcune grandi opere nell’intento di dare al porto nuovi spazi, infrastrutture e protezioni, ma dalla relazione si comprende chiaramente come queste fossero giudicate insufficienti e obsolete, quando non addirittura dannose.

Il primo provvedimento di rilievo risaliva al 1852, quando su impulso di Leopoldo II fu deciso di costruire la diga rettilinea, che si protendesse formando una bocca d’accesso verso la punta del molo mediceo, nel tentativo di difendere il porto dal maestrale (fig.1). Ma  prima per importanza fra tutte le iniziative granducali fu quella di edificare la grandiosa diga curvilinea, definita correntemente “molo novo”, per distinguerla dal “molo vecchio” realizzato sotto Cosimo II de’ Medici (fig.2).

Leopoldo II affidò l’impresa all’ingegnere francese Vittorio Poirel che ne curò il progetto e la realizzazione fu iniziata nel 1853 e fu conclusa in concomitanza con la fine del Granducato nel 1859. Costruita in larga misura coi materiali di risulta provenienti dall’abbattimento delle mura seicentesche e di gran parte delle strutture del lazzaretto di San Rocco, a coronamento dei suoi 1818 m. (per il Piombanti sono 1130) dispone di due fari, in direzione nord e sud. I relatori Orlando e Padova la definiscono “un’opera d’arte”, ma ne constatano la scarsa utilità, essendo sempre deserta di navi e fuori da ogni attività di traffico o di lavoro perché lo specchio d’acqua, pur profondo mediamente 11 m. (per Piombanti sono 8,5 m.) quindi quasi il triplo (o il doppio) del porto Mediceo, è troppo esposto ad onde e correnti.

Sembra che il Poirel avesse previsto questo limite e che avrebbe voluto ovviarvi collegando la diga al Marzocco, ma i costi e le vicende risorgimentali ne impedirono la realizzazione. Così la grandiosa diga sarà utile, più che allo sviluppo di un porto mercantile nuovo, come era negli auspici, “a coloro che voglion fare una passeggiata in mezzo al mare, e godere la vista della sua vastità, respirando un’aria balsamica”, come si legge nella Guida (1903) del canonico Giuseppe Piombanti.

Per avere solo un’idea del concetto che provo ad esprimere, basti ricordare che i tre secoli in questione sono gli stessi che, riferiti al Nuovo Mondo, separano la catena di montaggio di Henry Ford dall’arrivo della Mayflower. E leggendo la relazione Orlando-Padova sembra a tratti che nel 1906 il porto di Livorno fosse per vari aspetti ancora strutturato come ai tempi dei Padri Pellegrini.

Per collegare al porto Mediceo la nuova e vecchia darsena, ancora attiva nell’area dei Quattro Mori al punto da rischiare di recare danni allo storico monumento e da richiederne l’arretramento (1888) furono eseguiti lavori di grande portata che modificarono sensibilmente tutta l’area interessata.

Il collegamento via terra tra porto e darsena vecchia, fino ad allora garantito da una chiatta che prestava servizio continuato, fu risolto riducendone l’area con la costruzione del ponte a schiena d’asino comunemente detto “dei sospiri” (1872) progettato dall’ingegnere Olinto Paradossi, il cui nome dovette essere spesso rammentato da tutti i barrocciai e trasportatori che avevano necessità di affrontarlo in salita e con non minore impegno in discesa, finché nel 1888 il Comune provvide ad adeguarlo al suolo, creando due luci in luogo dell’unica precedente (fig.5). Sotto il ponte avveniva anche il collegamento d’acqua tra le due darsene, continuando ad utilizzarsi il precedente canale dei Francesi (1799).

In asse con la via Vittorio Emanuele, la nuova strada che passava sul ponte si indirizzava verso due infrastrutture di servizio adibite a barriera daziaria (terminate nel 1874), per concludersi – o iniziare – allo scalo emiciclico dell’Andana degli Anelli. Si realizzava così un chiaro esempio prospettico di città che penetra nel porto e viceversa (fig.6).

La nuova darsena fu invece collegata al Mediceo grazie all’impiego di un elegante ponte di ferro “girante”, come si diceva all’epoca (fig.7).

Ma i lavori di ammodernamento delle infrastrutture portuarie eseguiti nel secolo XIX non si conclusero qui. L’articolo del prossimo mese si soffermerà sulla realizzazione del Mandraccio e del Deposito Franco, affrontando poi le prime importanti iniziative realizzate nel nuovo secolo.